giovedì 28 agosto 2014

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,21 / 1,22 / 1,23 / 1,24 / 1,25 / 1,26

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [21] Sunt autem privata nulla natura, sed aut vetere occupatione, ut qui quondam in vacua venerunt, aut victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex quo fit, ut ager Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum; similisque est privatarum possessionum discriptio. Ex quo, quia suum cuiusque fit eorum, quae natura fuerant communia, quod cuique optigit, id quisque teneat; e quo si quis [quaevis] sibi appetet, violabit ius humanae societatis.
 21. I beni privati, peraltro, non esistono per natura, ma tali diventano, o per antica occupazione. come nel caso di coloro che un tempo vennero a stabilirsi in luoghi disabitati, o per diritto di conquista, come nel caso di coloro che s'impadronirono di un territorio per forza d'armi, o infine per legge, per convenzione, per contratto, per sorteggio. Per questo noi diciamo che il paese d'Arpino è degli Arpinati, e quel di Tuscolo, dei Tusculani; e allo stesso modo avviene la ripartizione dei beni privati. Ora, poiché diventa proprietà individuale di ciascuno una parte dei beni naturalmente comuni, quella parte che a ciascuno toccò in sorte, ciascuno la tenga per sua; e se qualcuno vi stenderà la mano per impadronirsene, violerà la legge della convivenza umana.

[22] Sed quoniam, ut praeclare scriptum est a Platone, non nobis solum nati sumus ortusque nostri partem patria vindicat, partem amici, atque, ut placet Stoicis, quae in terris gignantur, ad usum hominum omnia creari, homines autem hominum causa esse generatos, ut ipsi inter se aliis alii prodesse possent, in hoc naturam debemus ducem sequi, communes utilitates in medium adferre, mutatione officiorum, dando accipiendo, tum artibus, tum opera, tum facultatibus devincire hominum inter homines societatem.
 22. Ma poiché, come ha scritto splendidamente Platone, noi non siamo nati soltanto per noi, ma una parte della nostra esistenza la rivendica per sé la patria, e un'altra gli amici; e poiché ancora, come vogliono gli Stoici, tutto ciò che la terra produce è a vantaggio degli uomini, e gli uomini furono generati per il bene degli uomini, affinché possano giovarsi l'un l'altro a vicenda; per queste ragioni, dunque, noi dobbiamo seguire come guida la natura, mettendo in comune le cose di utilità comune, e stringendo sempre più i vincoli della società umana con lo scambio dei servigi, cioè col dare e col ricevere, con le arti, con l'attività, con i mezzi.

[23] Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas. Ex quo, quamquam hoc videbitur fortasse cuipiam durius, tamen audeamus imitari Stoicos, qui studiose exquirunt, unde verba sint ducta, credamusque, quia fiat, quod dictum est appellatam fidem. Sed iniustitiae genera duo sunt, unum eorum, qui inferunt, alterum eorum, qui ab is, quibus infertur, si possunt, non propulsant iniuriam. Nam qui iniuste impetum in quempiam facit aut ira aut aliqua perturbatione incitatus, is quasi manus afferre videtur socio; qui autem non defendit nec obsistit, si potest, iniuriae, tam est in vitio, quam si parentes aut amicos aut patriam deserat.
 23. Fondamento poi della giustizia è la lealtà, cioè la scrupolosa e sincera osservanza delle promesse e dei patti. Perciò - ma forse la cosa parrà a taluni alquanto forzata - oserei imitare gli Stoici, che cercano con tanto zelo l'etimologia delle parole, e vorrei credere che fides (fede, lealtà) sia stata chiamata così perché fit (si fa) quel che è stato promesso.Vi sono, poi, due tipi d'ingiustizia: l'uno è di coloro che fanno una offesa; l'altro, di quelli che, pur potendo, non la respingono da quanti la subiscono. Difatti, colui che, spinto dall'ira o da qualche altra passione, assale ingiustamente qualcuno, fa come chi metta le mani addosso a un suo compagno; ma chi, pur potendo, non respinge e non contrasta l'offesa non è meno colpevole di chi abbandonasse senza difesa i suoi genitori, i suoi amici, la sua patria.

[24] Atque illae quidem iniuriae, quae nocendi causa de industria inferuntur, saepe a metu proficiscuntur, cum is, qui nocere alteri cogitat, timet, ne, nisi id fecerit, ipse aliquo afficiatur incommodo. Maximam autem partem ad iniuriam faciendam aggrediuntur, ut adipiscantur ea, quae concupiverunt; in quo vitio latissime patet avaritia.
 24. Ed è ben vero che quelle ingiurie che si fanno per deliberato proposito di nuocere, hanno spesso origine dalla paura, quando, cioè, colui che medita di procurare un danno ad un altro, teme che, non facendo cosi, debba subir lui qualche danno. Ma la maggior parte degli uomini sono spinti a danneggiare gli altri per conquistare ciò che stimola in loro un intenso desiderio. E di questo la colpa massima è insita nell'avidità di denaro.

[25] Expetuntur autem divitiae cum ad usus vitae necessarios, tum ad perfruendas voluptates. In quibus autem maior est animus, in is pecuniae cupiditas spectat ad opes et ad gratificandi facultatem, ut nuper M. Crassus negabat ullam satis magnam pecuniam esse ei, qui in re publica princeps vellet esse, cuius fructibus exercitum alere non posset. Delectant etiam magnifici apparatus vitaeque cultus cum elegantia et copia, quibus rebus effectum est, ut infinita pecuniae cupiditas esset. Nec vero rei familiaris amplificatio nemini nocens vituperanda est, sed fugienda semper iniuria est.
 25. Inoltre, la ricchezza si desidera, o per soddisfare i bisogni della vita, o per goderne i piaceri. Ma coloro che hanno un animo assai grande e progetti molto elevati, bramano e cercano il denaro per acquistar potenza e prestigio; come, non molto tempo fa, Marco Crasso affermava che nessuna ricchezza è abbastanza grande per chi voglia primeggiare nello
Stato se, coi proventi di essa, egli non possa mantenere un esercito. Offrono godimento anche gli splendidi arredamenti, e un raffinato tenore di vita, ricco ed elegante. Per tutte queste ragioni il desiderio della ricchezza non conosce limiti. E in verità, non merita biasimo il cercare d'accrescere il patrimonio domestico, quando non si nuoce ad alcuno; basta non commetter mai nessuna ingiustizia.


[26] Maxime autem adducuntur plerique, ut eos iustitiae capiat oblivio, cum in imperiorum, honorum, gloriae cupiditatem inciderunt. Quod enim est apud Ennium:

"Nulla sancta societas / Nec fides regni est",
id latius patet. Nam quidquid eiusmodi est, in quo non possint plures excellere, in eo fit plerumque tanta contentio, ut difficillimum sit servare sanctam societatem. Declaravit id modo temeritas C. Caesaris, qui omnia iura divina et humana pervertit propter eum, quem sibi ipse opinionis errore finxerat principatum. Est autem in hoc genere molestum, quod in maximis animis splendidissimisque ingeniis plerumque existunt honoris, imperii, potentiae, gloriae cupiditates. Quo magis cavendum est, ne quid in eo genere peccetur.
 26. Ma i più perdono ogni senso e ogni ricordo della giustizia, quando cadono in preda al desiderio del comando, degli onori e della gloria. Certo, quella sentenza di Ennio:
" La brama del regno non conosce né santità di affetti né integrità di fede"
ha un suo ben più vasto campo di applicazione. In verità, ogni stato e ogni grado che non ammetta supremazia di varie persone, diventa generalmente il campo di contese così aspre che è assai difficile rispettare "la santità degli affetti". Chiara dimostrazione ne ha dato di recente la temeraria azione di Gaio Cesare che ha sovvertito tutte le leggi divine e umane per quel folle ideale di supremazia che egli s'era creato nella mente. E a questo riguardo è assai penoso vedere che sono gli animi più grandi e gl'ingegni più splendidi quelli in cui per lo più si accendono i desideri d'onori, di comando, di potenza e di gloria. Tanto maggiore cautela bisogna dunque usare per non commettere errori a questo riguardo.

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