giovedì 28 agosto 2014

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,46 / 1,47 / 1,48 / 1,49 / 1,50

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [46] Quoniam autem vivitur non cum perfectis hominibus planeque sapientibus, sed cum iis, in quibus praeclare agitur, si sunt simulacra virtutis, etiam hoc intellegendum puto, neminem omnino esse neglegendum, in quo aliqua significatio virtutis appareat, colendum autem esse ita quemque maxime, ut quisque maxime virtutibus his lenioribus erit ornatus, modestia, temperantia, hac ipsa, de qua multa iam dicta sunt, iustitia. Nam fortis animus et magnus in homine non perfecto nec sapiente ferventior plerumque est, illae virtutes bonum virum videntur potius attingere. Atque haec in moribus.
 46. E poiché si vive non assieme ad uomini perfetti e del tutto saggi, ma con gente in cui è già molto se c'è un'ombra di virtù, bisogna anche persuadersi (io credo) che non si debbba assolutamente trascurare nessuno, da cui trasparisca un qualche indizio di virtù; anzi, con tanta maggior cura si deve coltivare una persona, quanto più essa è adorna di certe virtù più miti, come la moderazione, la temperanza e quella stessa giustizia di cui si è già tanto parlato. Invero, un animo forte e grande, in un uomo non perfetto e non saggio, è per lo più troppo fervido; quelle virtù, invece, sembrano convenir piuttosto al comune uomo dabbene. E questo valga per ciò che riguarda il carattere.

[47] De benivolentia autem, quam quisque habeat erga nos, primum illud est in officio, ut ei plurimum tribuamus, a quo plurimum diligamur, sed benivolentiam non adulescentulorum more ardore quodam amoris, sed stabilitate potius et constantia iudicemus. Sin erunt merita, ut non ineunda, sed referenda sit gratia, maior quaedam cura adhibenda est; nullum enim officium referenda gratia magis necessarium est.
47. Quanto alla benevolenza che altri mostrano verso di noi, il primo nostro dovere è che più si dia a chi più ci ama; ma questa benevolenza, non dobbiamo giudicarla, come fanno i giovinetti, da uno slancio d'affetto, ma piuttosto dalla sua stabilità e saldezza. Se poi qualcuno ha meriti tali verso di noi, che noi dobbiamo, non già acquistarci la sua gratitudine, ma testimoniargli la nostra, allora bisogna adoperare maggior zelo: nessun dovere è più imperioso che il ricambiare un beneficio ricevuto.

[48] Quodsi ea, quae utenda acceperis, maiore mensura, si modo possis, iubet reddere Hesiodus, quidnam beneficio provocati facere debemus? An imitari agros fertiles, qui multo plus efferunt, quam acceperunt? Etenim si in eos, quos speramus nobis profuturos, non dubitamus, officia conferre, quales in eos esse debemus, qui iam profuerunt? Nam cum duo genera liberalitatis sint, unum dandi beneficii, alterum reddendi, demus necne in nostra potestate est, non reddere viro bono non licet, modo id facere possit sine iniuria.
 48. E se Esiodo consiglia di rendere in maggior misura, solo che tu possa, quello che hai avuto in prestito, che cosa dobbiamo fare se qualcun altro ci previene nel benefizio? Non dobbìamo forse imitare i campi fertili, che rendono assai più di quel che ricevono? E se non esitiamo a prestare i nostri servigi a coloro dai quali ci ripromettiamo vantaggi futuri, quale riconoscenza non dobbiamo avere verso coloro che già ci hanno recato vantaggi? Ci sono due maniere di generosità: quella che consiste nel fare il beneficio e quella che consiste nel renderlo. Ora, se il farlo o il non farlo è in nostra facoltà, il non renderlo non è lecito a un uomo dabbene, purché possa fare ciò senza commettere un'ingiustizia.

[49] Acceptorum autem beneficiorum sunt dilectus habendi, nec dubium, quin maximo cuique plurimum debeatur. In quo tamen inprimis, quo quisque animo, studio, benivolentia fecerit, ponderandum est. Multi enim faciunt multa temeritate quadam sine iudicio, vel morbo in omnes vel repentino quodam quasi vento impetu animi incitati; quae beneficia aeque magna non sunt habenda atque ea, quae iudicio, considerate constanterque delata sunt. Sed in collocando beneficio et in referenda gratia, si cetera paria sunt, hoc maxime officii est, ut quisque opis indigeat, ita ei potissimum opitulari; quod contra fit a plerisque; a quo enim plurimum sperant, etiamsi ille iis non eget, tamen ei potissimum inserviunt.
 49. Quanto, poi, ai benefici ricevuti, bisogna far distinzione tra essi, e non c'è dubbio che, maggiore è il beneficio, maggiore è il debito di riconoscenza. A questo riguardo, tuttavia, bisogna soprattutto considerare con quale animo, con quale zelo, con quale benevolenza ciascuno l'ha fatto. In realtà, molte persone, per una certa leggerezza, fanno molti benefici, così, senza discernimento, perché spronate, o da una morbosa benevolenza verso tutti, o da un improvviso
impeto dell'animo, quasi come da una raffica di vento: questi benefici però non vanno tenuti nella stessa considerazione di quelli che furono prestati con giusto criterio, con meditata e consapevole fermezza. In ogni modo, tanto nel fare, quanto nel ricambiare il beneficio, è nostro categorico dovere, (se tutte le altre condizioni sono pari), porgere più specialmente aiuto a colui che ha più bisogno d'aiuto. I più, invece, fanno tutto il contrario: prestano più specialmente i loro servigi a colui dal quale più sperano, anche se egli non ne abbia bisogno.

[50] Optime autem societas hominum coniunctioque servabitur, si, ut quisque erit coniunctissimus, ita in eum benignitatis plurimum conferetur. Sed quae naturae principia sint communitatis et societatis humanae, repetendum videtur altius. Est enim primum quod cernitur in universi generis humani societate. Eius autem vinculum est ratio et oratio, quae docendo, discendo, communicando, disceptando, iudicando conciliat inter se homines coniungitque naturali quadam societate, neque ulla re longius absumus a natura ferarum, in quibus inesse fortitudinem saepe dicimus, ut in equis, in leonibus, iustitiam, aequitatem, bonitatem non dicimus; sunt enim rationis et orationis expertes.
 50. Il miglior modo per mantener salda la società e la fratellanza umana è di usare maggior lgenerosità verso chi ci è più strettamente congiunto. Ma conviene, io penso, risalire più indietro e mostrare quali siano i principi naturali che reggono l'umano consorzio. Il primo è quello che si scorge nella società dell'intero genere umano. La sua forza unificatrice è la ragione e la parola, che, insegnando e imparando, comunicando, discutendo, giudicando, affratella gli uomini tra loro e li congiunge in una specie di associazione naturale. Ed è questo il carattere che più ci allontana dalla natura delle bestie: noi diciamo spesso che nelle bestie c'è la forza - come nei cavalli e nei leoni -, ma non la giustizia, né l'equità, né la bontà; perché quelle son prive di ragione e di parola.

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