TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri)
[46] Quoniam autem vivitur non cum perfectis hominibus planeque
sapientibus, sed cum iis, in quibus praeclare agitur, si sunt simulacra
virtutis, etiam hoc intellegendum puto, neminem omnino esse neglegendum,
in quo aliqua significatio virtutis appareat, colendum autem esse ita
quemque maxime, ut quisque maxime virtutibus his lenioribus erit
ornatus, modestia, temperantia, hac ipsa, de qua multa iam dicta sunt,
iustitia. Nam fortis animus et magnus in homine non perfecto nec
sapiente ferventior plerumque est, illae virtutes bonum virum videntur
potius attingere. Atque haec in moribus.
46. E poiché si vive non assieme ad uomini perfetti e del tutto saggi, ma con gente in cui è già molto se c'è un'ombra di virtù, bisogna anche persuadersi (io credo) che non si debbba assolutamente trascurare nessuno, da cui trasparisca un qualche indizio di virtù; anzi, con tanta maggior cura si deve coltivare una persona, quanto più essa è adorna di certe virtù più miti, come la moderazione, la temperanza e quella stessa giustizia di cui si è già tanto parlato. Invero, un animo forte e grande, in un uomo non perfetto e non saggio, è per lo più troppo fervido; quelle virtù, invece, sembrano convenir piuttosto al comune uomo dabbene. E questo valga per ciò che riguarda il carattere.
[47] De benivolentia autem, quam quisque habeat erga nos, primum illud
est in officio, ut ei plurimum tribuamus, a quo plurimum diligamur, sed
benivolentiam non adulescentulorum more ardore quodam amoris, sed
stabilitate potius et constantia iudicemus. Sin erunt merita, ut non
ineunda, sed referenda sit gratia, maior quaedam cura adhibenda est;
nullum enim officium referenda gratia magis necessarium est.
47. Quanto alla benevolenza che altri mostrano verso di noi, il primo nostro dovere è che più si dia a chi più ci ama; ma questa benevolenza, non dobbiamo giudicarla, come fanno i giovinetti, da uno slancio d'affetto, ma piuttosto dalla sua stabilità e saldezza. Se poi qualcuno ha meriti tali verso di noi, che noi dobbiamo, non già acquistarci la sua gratitudine, ma testimoniargli la nostra, allora bisogna adoperare maggior zelo: nessun dovere è più imperioso che il ricambiare un beneficio ricevuto.
[48] Quodsi ea, quae utenda acceperis, maiore mensura, si modo possis,
iubet reddere Hesiodus, quidnam beneficio provocati facere debemus? An
imitari agros fertiles, qui multo plus efferunt, quam acceperunt? Etenim
si in eos, quos speramus nobis profuturos, non dubitamus, officia
conferre, quales in eos esse debemus, qui iam profuerunt? Nam cum duo
genera liberalitatis sint, unum dandi beneficii, alterum reddendi, demus
necne in nostra potestate est, non reddere viro bono non licet, modo id
facere possit sine iniuria.
48. E se Esiodo consiglia di rendere in maggior misura, solo che tu possa, quello che hai avuto in prestito, che cosa dobbiamo fare se qualcun altro ci previene nel benefizio? Non dobbìamo forse imitare i campi fertili, che rendono assai più di quel che ricevono? E se non esitiamo a prestare i nostri servigi a coloro dai quali ci ripromettiamo vantaggi futuri, quale riconoscenza non dobbiamo avere verso coloro che già ci hanno recato vantaggi? Ci sono due maniere di generosità: quella che consiste nel fare il beneficio e quella che consiste nel renderlo. Ora, se il farlo o il non farlo è in nostra facoltà, il non renderlo non è lecito a un uomo dabbene, purché possa fare ciò senza commettere un'ingiustizia.
[49] Acceptorum autem beneficiorum sunt dilectus habendi, nec dubium,
quin maximo cuique plurimum debeatur. In quo tamen inprimis, quo quisque
animo, studio, benivolentia fecerit, ponderandum est. Multi enim
faciunt multa temeritate quadam sine iudicio, vel morbo in omnes vel
repentino quodam quasi vento impetu animi incitati; quae beneficia aeque
magna non sunt habenda atque ea, quae iudicio, considerate
constanterque delata sunt. Sed in collocando beneficio et in referenda
gratia, si cetera paria sunt, hoc maxime officii est, ut quisque opis
indigeat, ita ei potissimum opitulari; quod contra fit a plerisque; a
quo enim plurimum sperant, etiamsi ille iis non eget, tamen ei
potissimum inserviunt.
49. Quanto, poi, ai benefici ricevuti, bisogna far distinzione tra essi, e non c'è dubbio che, maggiore è il beneficio, maggiore è il debito di riconoscenza. A questo riguardo, tuttavia, bisogna soprattutto considerare con quale animo, con quale zelo, con quale benevolenza ciascuno l'ha fatto. In realtà, molte persone, per una certa leggerezza, fanno molti benefici, così, senza discernimento, perché spronate, o da una morbosa benevolenza verso tutti, o da un improvviso
impeto dell'animo, quasi come da una raffica di vento: questi benefici però non vanno tenuti nella stessa considerazione di quelli che furono prestati con giusto criterio, con meditata e consapevole fermezza. In ogni modo, tanto nel fare, quanto nel ricambiare il beneficio, è nostro categorico dovere, (se tutte le altre condizioni sono pari), porgere più specialmente aiuto a colui che ha più bisogno d'aiuto. I più, invece, fanno tutto il contrario: prestano più specialmente i loro servigi a colui dal quale più sperano, anche se egli non ne abbia bisogno.
[50] Optime autem societas hominum coniunctioque servabitur, si, ut
quisque erit coniunctissimus, ita in eum benignitatis plurimum
conferetur. Sed quae naturae principia sint communitatis et societatis
humanae, repetendum videtur altius. Est enim primum quod cernitur in
universi generis humani societate. Eius autem vinculum est ratio et
oratio, quae docendo, discendo, communicando, disceptando, iudicando
conciliat inter se homines coniungitque naturali quadam societate, neque
ulla re longius absumus a natura ferarum, in quibus inesse fortitudinem
saepe dicimus, ut in equis, in leonibus, iustitiam, aequitatem,
bonitatem non dicimus; sunt enim rationis et orationis expertes.
50. Il miglior modo per mantener salda la società e la fratellanza umana è di usare maggior lgenerosità verso chi ci è più strettamente congiunto. Ma conviene, io penso, risalire più indietro e mostrare quali siano i principi naturali che reggono l'umano consorzio. Il primo è quello che si scorge nella società dell'intero genere umano. La sua forza unificatrice è la ragione e la parola, che, insegnando e imparando, comunicando, discutendo, giudicando, affratella gli uomini tra loro e li congiunge in una specie di associazione naturale. Ed è questo il carattere che più ci allontana dalla natura delle bestie: noi diciamo spesso che nelle bestie c'è la forza - come nei cavalli e nei leoni -, ma non la giustizia, né l'equità, né la bontà; perché quelle son prive di ragione e di parola.
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