giovedì 28 agosto 2014

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,64 / 1,65

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [64] Sed illud odiosum est, quod in hac elatione et magnitudine animi facillime pertinacia et nimia cupiditas principatus innascitur. Ut enim apud Platonem est, omnem morem Lacedaemoniorum inflammatum esse cupiditate vincendi, sic, ut quisque animi magnitudine maxime excellet, ita maxime vult princeps omnium vel potius solus esse. Difficile autem est, cum praestare omnibus concupieris, servare aequitatem, quae est iustitiae maxime propria. Ex quo fit ut neque disceptatione vinci se nec ullo publico ac legitimo iure patiantur, existuntque in re publica plerumque largitores et factiosi, ut opes quam maximas consequantur et sint vi potius superiores quam iustitia pares. Sed quo difficilius, hoc praeclarius; nullum enim est tempus, quod iustitia vacare debeat.
64. Ma è ben penoso vedere come in seno a questa elevatezza e grandezza d'animo nasca assai facilmente l'ostinazione e un'eccessiva bramosia di primato. A quel modo che, come scrive Platone, lo spirito pubblico degli Spartani non ardeva che d'amor di vittoria, così, quanto più uno eccelle per grandezza d'animo, tanto più agogna d'essere il primo, o piuttosto il solo fra tutti. D'altra parte, quando si è posseduti dal desiderio di essere superiore a tutti, è ben difficile mantenere l'equità, che è il principale attributo della giustizia. Onde avviene che gli ambiziosi non si lasciano vincere, né da buone ragioni, né da alcuna autorità di diritto e di leggi; ed ecco emergere per lo più nella vita pubblica corruttori e partigiani, che altro non vogliono se non acquistare quanta più potere è possibile, ed essere superiori nella forza piuttosto che pari nella giustizia. Ma quanto più è difficile, tanto più è bella la moderazione: non c'è momento della vita che possa sottrarsi all'imperativo della giustizia.  

[65] Fortes igitur et magnanimi sunt habendi non qui faciunt, sed qui propulsant iniuriam. Vera autem et sapiens animi magnitudo honestum illud, quod maxime natura sequitur, in factis positum, non in gloria iudicat principemque se esse mavult quam videri. Etenim qui ex errore imperitae multitudinis pendet, hic in magnis viris non est habendus. Facillime autem ad res iniustas impellitur, ut quisque altissimo animo est, gloriae cupiditate; qui locus est sane lubricus, quod vix invenitur, qui laboribus susceptis periculisque aditis non quasi mercedem rerum gestarum desideret gloriam.
 65. Forti e magnanimi, adunque, si devono stimare non quelli che fanno, ma quelli che respingono l'ingiustizia. E la vera e sapiente grandezza d'animo giudica che quell'onestà, a cui tende sopratutto la natura umana, sia riposto non nella fama, bensi nelle azioni, e perciò non tanto vuol sembrare quanto essere superiore agli altri. In verità, chi dipende dal capriccio d'una folla ignorante, non deve annoverarsi fra gli uomini grandi. D'altra parte, l'animo umano, quanto più è elevato, tanto più facilmente è spinto a commettere azioni ingiuste dal desiderio della gloria; ma questo è un terreno assai sdrucciolevole, perché è difficile trovare uno che, dopo aver sostenuto fatiche e affrontato pericoli, non desideri, come ricompensa delle sue imprese, la gloria.

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,61 / 1,62 / 1,63

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 


[61] Intellegendum autem est, cum proposita sint genera quattuor, e quibus honestas officiumque manaret, splendidissimum videri, quod animo magno elatoque humanasque res despiciente factum sit. Itaque in probris maxime in promptu est, si quid tale dici potest:

   "Vos enim, iuvenes, animum geritis muliebrem,
             illa" virgo "viri" 
et si quid eiusmodi:

   Salmacida, spolia sine sudore et sanguine.
Contraque in laudibus, quae magno animo et fortiter excellenterque gesta sunt, ea nescio quomodo quasi pleniore ore laudamus. Hinc rhetorum campus de Marathone, Salamine, Plataeis, Thermopylis, Leuctris, hinc noster Cocles, hinc Decii, hinc Cn. et P. Scipiones, hinc M. Marcellus, innumerabiles alii, maximeque ipse populus Romanus animi magnitudine excellit. Declaratur autem studium bellicae gloriae, quod statuas quoque videmus ornatu fere militari.
 61. Ma bisogna pur riconoscere che, delle quattro virtù che io ho esposto innanzi e da cui procedono l'onestà e il dovere, la più splendida è certamente quella che risiede in un animo grande ed elevato, il quale disprezza i beni esteriori. Ecco perchè, quando si tratta di fare un rimprovero a qualcuno, ci corrono subito alle labbra parole come queste :
" Voi, o giovani, avete un cuore di donna; quella fanciulla, invece, ha un cuore d'eroe";
o come queste altre:
" 0 Salmacide (= effeminato), prenditi il bottino, che non ti costa né sudore né sangue";
all'opposto, quando si tratta di lodare, tutte quelle azioni che furono compiute con grandezza e fortezza d'animo, noi le esaltiamo, non so come, con voce più alta e più chiara. Di qui, quella larga messe di esempi che offrono ai maestri d'eloquenza le battaglie di Maratona, di Salamina, di Platea, delle Termopili, di Leuttra; di qui quella gloria onde risplendono i nostri eroi: Orazio Coclite, i Decii, Gaio e Publio Scipione, Marco Marcello e innumerevoli altri; ma soprattutto il popolo romano, meraviglioso campione di magnanimità. Inoltre mette in chiara luce il nostro amore per la gloria delle armi il fatto che anche le statue noi le vediamo generalmente in abito militare.

[62] Sed ea animi elatio, quae cernitur in periculis et laboribus, si iustitia vacat pugnatque non pro salute communi, sed pro suis commodis, in vitio est; non modo enim id virtutis non est, sed est potius immanitatis omnem humanitatem repellentis. Itaque probe definitur a Stoicis fortitudo, cum eam virtutem esse dicunt propugnantem pro aequitate. Quocirca nemo, qui fortitudinis gloriam consecutus est insidiis et malitia, laudem est adeptus: nihil enim honestum esse potest, quod iustitia vacat.
 62. Ma quella grandezza d'animo che si manifesta nei pericoli e nelle difficoltà, se manca di giustizia e combatte, non per il pubblico bene, ma per i suoi particolari interessi, è in colpa: perché l'egoismo non solo è estraneo alla virtù, ma piuttosto è proprio della brutalità, che esclude e respinge ogni gentilezza umana. Pertanto gli Stoici ben definiscono la fortezza, quando affermano che essa è quella virtù che combatte in difesa della giustizia. Nessuno, perciò, che abbia conseguito fama di fortezza con inganni e con malizia, ha mai ottenuto una vera gloria: non c'è onestà se non c'è giustizia.

 [63] Praeclarum igitur illud Platonis: "Non," inquit, "solum scientia, quae est remota ab iustitia calliditas potius quam sapientia est appellanda, verum etiam animus paratus ad periculum, si sua cupiditate, non utilitate communi impellitur, audaciae potius nomen habeat, quam fortitudinis." Itaque viros fortes et magnanimos eosdem bonos et simplices, veritatis amicos minimeque fallaces esse volumus; quae sunt ex media laude iustitiae.
 63. Bellissima, dunque, quella frase di Platone: " Non solo quel sapere, che è disgiunto da giustizia, va chiamato furfanteria piuttosto che sapienza, ma anche il coraggio che affronta i pericoli, se è mosso, non dal bene comune, ma da un suo personale interesse, abbia il nome di audacia piuttosto che di fortezza". Noi vogliamo pertanto che gli uomini forti e coraggiosi siano, nel medesimo tempo, buoni e schietti, amanti della verità e alieni da ogni impostura: qualità queste che scaturiscono dall'intima essenza della giustizia.

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,56 / 1,57 / 1,58 / 1,59 / 1,60

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [56] Et quamquam omnis virtus nos ad se allicit facitque, ut eos diligamus, in quibus ipsa inesse videatur, tamen iustitia et liberalitas id maxime efficit. Nihil autem est amabilius nec copulatius, quam morum similitudo bonorum; in quibus enim eadem studia sunt, eaedem voluntates, in iis fit, ut aeque quisque altero delectetur ac se ipso, efficiturque id, quod Pythagoras vult in amicitia, ut unus fiat ex pluribus. Magna etiam illa communitas est, quae conficitur ex beneficiis ultro et citro datis acceptis, quae et mutua et grata dum sunt, inter quos ea sunt firma devinciuntur societate.
 56. E benché ogni virtù ci attragga a sé e ci faccia amare coloro nei quali sembra che essa risieda, tuttavia la giustizia e la liberalità sono quelle che producono più specialmente questo effetto. [E niente è più atto a destare amore e a stringere i cuori che la somiglianza dei costumi nelle persone dabbene: quando due uomini hanno gli stessi interessi e le stesse aspirazioni, allora avviene che ciascuno dei due ami l'altro come se stesso, e si avvera quello che Pitagora vuole nell'amicizia, che, cioè, di più anime si faccia un'anima sola]. Grande è ancora quella unione che nasce da vicendevole scambio di benefici: finché questi sono reciproci e graditi, una salda alleanza lega tra loro benefattori e beneficati.

 [57] Sed cum omnia ratione animoque lustraris, omnium societatum nulla est gravior, nulla carior quam ea, quae cum re publica est uni cuique nostrum. Cari sunt parentes, cari liberi, propinqui, familiares, sed omnes omnium caritates patria una complexa est, pro qua quis bonus dubitet mortem oppetere, si ei sit profuturus? Quo est detestabilior istorum immanitas, qui lacerarunt omni scelere patriam et in ea funditus delenda occupati et sunt et fuerunt.
 57. Ma quando avrai ben considerato ogni cosa con la mente e col cuore, vedrai che fra tutte le forme di società la più importante e la più cara è quella che lega ciascuno di noi allo Stato. Cari sono i genitori, cari i figliuoli, cari i parenti e gli amici; ma la patria da sola comprende in sé tutti gli affetti di tutti. E quale buon cittadino esiterebbe ad affrontare la morte per lei, se il suo sacrifizio dovesse giovarle? Tanto più escerabile, dunque, è la crudeltà di codesti facinorosi che, con ogni sorta di scelleratezze, fecero strazio della loro patria, e a nient'altro furono e sono intenti che a distruggerla dalle fondamenta.

[58] Sed si contentio quaedam et comparatio fiat, quibus plurimum tribuendum sit officii, principes sint patria et parentes, quorum beneficiis maximis obligati sumus proximi liberi totaque domus, quae spectat in nos solos neque aliud ullum potest habere perfugium, deinceps bene convenientes propinqui, quibuscum communis etiam fortuna plerumque est. Quamobrem necessaria praesidia vitae debentur his maxime quos ante dixi, vita autem victusque communis, consilia, sermones, cohortationes, consolationes, interdum etiam obiurgationes in amicitiis vigent maxime, estque ea iucundissima amicitia, quam similitudo morum coniugavit.
58. Ma, se si vuole fare una gara e un confronto per sapere a chi dobbiamo rendere maggior ossequio, abbiano il primo posto la patria e i genitori, ai quali noi dobbiamo i più grandi benefici; vengano subito dopo i figliuoli e tutta la famiglia, che tiene fisso lo sguardo in noi soli e in noi soli trova il suo unico rifugio; seguano poi i parenti che sono in buona armonia con noi, i parenti coi quali noi abbiamo per lo più in comune anche la sorte. Perciò gli aiuti necessari alla vita si devono principalmente a questi che ho nominato; ma la comunanza e l'intimità del vivere, i consigli, i discorsi, le esortazioni, i conforti, talora anche i rimproveri, hanno il loro massimo valore nell'amicizia, e amicizia dolcissima è quella originata dall'affinità di carattere. 

[59] Sed in his omnibus officiis tribuendis videndum erit, quid cuique maxime necesse sit et quid quisque vel sine nobis aut possit consequi aut non possit. Ita non idem erunt necessitudinum gradus qui temporum, suntque officia, quae aliis magis quam aliis debeantur, ut vicinum citius adiuveris in fructibus percipiendis quam aut fratrem aut familiarem, at, si lis in iudicio sit, propinquum potius et amicum quam vicinum defenderis. Haec igitur et talia circumspicienda sunt in omni officio [et consuetudo exercitatioque capienda], ut boni ratiocinatores officiorum esse possimus et addendo deducendoque videre, quae reliqui summa fiat, ex quo quantum cuique debeatur intellegas.
 59. Ma, nell'adempimento di tutti questi doveri, dobbiamo guardare a ciò di cui ciascuno ha maggior bisogno, e a ciò che ciascuno anche senza di noi può o non può conseguire. Così non sempre ai gradi degli obblighi sociali corrispondono quelli delle circostanze, e ci son certi servigi che è doveroso prestare ad alcuni piuttosto che ad altri. Così, per esempio, nel tempo della raccolta, aiuterai più sollecitamente il vicino che non il fratello o l'amico; per contro, se si discute una lite in tribunale, difenderai il parente o l'amico piuttosto che il vicino. [Queste e altre simili considerazioni si debbono fare in ogni sorta di beneficenza, e si deve acquistar molta pratica, per diventar buoni calcolatori dei doveri, e vedere, sommando e sottraendo, quale ne sia il residuo, onde comprendere l'entità del nostro debito verso ciascuno]. 

[60] Sed ut nec medici nec imperatores nec oratores quamvis artis praecepta perceperint, quicquam magna laude dignum sine usu et exercitatione consequi possunt, sic officii conservandi praecepta traduntur illa quidem, ut facimus ipsi, sed rei magnitudo usum quoque exercitationemque desiderat. Atque ab iis rebus, quae sunt in iure societatis humanae, quemadmodum ducatur honestum, ex quo aptum est officium, satis fere diximus.
 60. Ancora. Come i medici, i generali, gli oratori, pur avendo bene appreso le regole teoriche, non possono conseguir nulla che meriti gran lode senza l'esperienza e la pratica, così, regole e precetti sulla rigorosa osservanza dei doveri, se ne impartiscono, come appunto sto facendo io, ma la vastità e la varietà della cosa richiedono anche esperienza e pratica. E così credo d'aver chiarito abbastanza in che modo, da quei principi che si fondano sul diritto dell'umana convivenza, derivi l'onestà, da cui dipende a sua volta il dovere.

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,51 / 1,52 / 1,53 / 1,54 / 1,55

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 


[51] Ac latissime quidem patens hominibus inter ipsos, omnibus inter omnes societas haec est. In qua omnium rerum, quas ad communem hominum usum natura genuit, est servanda communitas, ut quae discripta sunt legibus et iure civili, haec ita teneantur, ut sit constitutum e quibus ipsis, cetera sic observentur, ut in Graecorum proverbio est, amicorum esse communia omnia. Omnium autem communia hominum videntur ea, quae sunt generis eius, quod ab Ennio positum in una re transferri in permultas potest:

   Homo, qui erranti comiter monstrat viam,
   Quasi lumen de suo lumine accendat, facit.
   Nihilo minus ipsi lucet, cum illi accenderit.
Una ex re satis praecipit, ut quidquid sine detrimento commodari possit, id tribuatur vel ignoto.
 51. Questa, dunque, è la più ampia forma di società che esista, in quanto comprende e unisce tutti gli uomini con tutti gli altri uomini: in essa, quei beni che le leggi e il diritto civile assegnano ai privati, siano dai privati tenuti e goduti come appunto dispongono le leggi; ma tutti quegli altri beni che la natura produce per il comune vantaggio degli uomini siano tenuti e goduti dagli uomini come patrimonio di tutti e di ciascuno, così come raccomanda il proverbio greco: " Gli amici hanno tutto in comune con gli amici". E comuni a tutti gli uomini sono evidentemente quei beni che appartengono a quel genere che, indicato da Ennio in un singolo esempio, può facilmente estendersi a moltissimi altri casi:
" L'uomo che mostra cortesemente la via a un viandante smarrito, fa come se dal suo lume accendesse un altro lume. La sua fiaccola non gli risplende meno, dopo che ha acceso quella dell'altro".
Con un solo ed unico esempio il poeta ci insegna che, quanto possiamo concedere senza nostro danno, tutto dobbiamo accordare anche a uno sconosciuto.

[52] Ex quo sunt illa communia: non prohibere aqua profluente, pati ab igne ignem capere, si qui velit, consilium fidele deliberanti dare, quae sunt iis utilia, qui accipiunt, danti non molesta. Quare et his utendum est et semper aliquid ad communem utilitatem afferendum. Sed quoniam copiae parvae singulorum sunt, eorum autem, qui his egeant, infinita est multitudo, vulgaris liberalitas referenda est ad illum Ennii finem "nihilominus ipsi lucet", ut facultas sit, qua in nostros simus liberales.
 52. Di qui le massime comuni: non impedir l'uso di un'acqua corrente; permetti che, chi vuole, accenda il suo fuoco dal tuo fuoco; dà un buon consiglio a chi è in dubbio; tutte cose che sono utili a chi le riceve, e che, a chi le dà, non sono affatto dannose. A queste massime, dunque, dobbiamo attenerci e, in più, portare sempre qualche contributo al bene comune. Ma, poiché i mezzi delle singole persone sono scarsi, e infinito è il numero dei bisognosi, questa liberalità aperta a tutti si restringa entro il limite posto da Ennio: "La sua fiaccola non gli risplende meno", sì che ci resti la possibilità di essere generosi verso i nostri cari.

[53] Gradus autem plures sunt societatis hominum. Ut enim ab illa infinita discedatur, proprior est eiusdem gentis, nationis, linguae, qua maxime homines coniunguntur. Interius etiam est eiusdem esse civitatis; multa enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines praeterea et familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae. Artior vero colligatio est societatis propinquorum; ab illa enim inmensa societate humani generis in exiguum angustumque concluditur.
 53. La società umana ha diversi gradi o forme. La società più ampia, dopo quella che non ha confini e di cui abbiamo già parlato, è quella che consiste nell'identità di nazione e di linguaggio, che è il vincolo più saldo che unisca gli uomini fra loro. Società più intima ancora è quella di appartenere alla stessa città: molte cose i cittadini hanno in comune fra loro, come il fòro, i templi, i portici, le strade, le leggi, i diritti, i tribunali, i suffragi; inoltre, la familiarità e le amicizie, i molteplici e scambievoli rapporti d'interessi e di affari. Ancora più stretto è il legame che avvince i membri di una stessa famiglia: la società umana, da quella forma universale e infinita, si restringe così a una cerchia piccola e angusta.

[54] Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Sequuntur fratrum coniunctiones, post consobrinorum sobrinorumque, qui cum una domo iam capi non possint, in alias domos tamquam in colonias exeunt. Sequuntur conubia et affinitates ex quibus etiam plures propinqui; quae propagatio et suboles origo est rerum publicarum. Sanguinis autem coniunctio et benivolentia devincit homines [et] caritate.
 54. In verità, tutti gli esseri viventi tendono per naturale istinto alla procreazione, e perciò la prima forma di società si attua nell'accoppiamento sessuale; la seconda, nella prole, e quindi nell'unità della casa e nella comunanza di tutti i beni. Ed è questo il primo principio della città e, direi quasi, il semenzaio dello Stato. Seguono le unioni tra fratelli e sorelle, poi tra cugini e biscugini, i quali, quando una sola casa non può più contenerli escono a fondar nuove case, quasi come colonie. Seguono i matrimoni , le affinità , per cui si moltiplicano le parentele; e in questo propagarsi e pullulare della prole è appunto l'origine degli Stati. 

[55] Magnum est enim eadem habere monumenta maiorum, eisdem uti sacris, sepulchra habere communia. Sed omnium societatum nulla praestantior est, nulla firmior, quam cum viri boni moribus similes sunt familiaritate coniuncti; illud enim honestum, quod saepe dicimus, etiam si in alio cernimus, [tamen] nos movet atque illi in quo id inesse videtur amicos facit.]
 55. Or bene, la comunanza del sangue lega gli uomini con la benevolenza e l'amore: è davvero una gran cosa avere le stesse mernorie degli avi, compiere gli stessi riti sacri, avere in comune i sepolcri. [Ma fra tutte le forme di società, la più nobile e la più salda è quella che nasce quando uomini virtuosi, affini per carattere, si stringono fra loro di sincera e profonda amicizia. Perché quell'onestà, di cui parlo spesso, ha un potere tale che, se la scorgiamo anche in altri, allora ci tocca il cuore, e ci rende amici di colui nel quale crediamo di trovarla

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,46 / 1,47 / 1,48 / 1,49 / 1,50

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [46] Quoniam autem vivitur non cum perfectis hominibus planeque sapientibus, sed cum iis, in quibus praeclare agitur, si sunt simulacra virtutis, etiam hoc intellegendum puto, neminem omnino esse neglegendum, in quo aliqua significatio virtutis appareat, colendum autem esse ita quemque maxime, ut quisque maxime virtutibus his lenioribus erit ornatus, modestia, temperantia, hac ipsa, de qua multa iam dicta sunt, iustitia. Nam fortis animus et magnus in homine non perfecto nec sapiente ferventior plerumque est, illae virtutes bonum virum videntur potius attingere. Atque haec in moribus.
 46. E poiché si vive non assieme ad uomini perfetti e del tutto saggi, ma con gente in cui è già molto se c'è un'ombra di virtù, bisogna anche persuadersi (io credo) che non si debbba assolutamente trascurare nessuno, da cui trasparisca un qualche indizio di virtù; anzi, con tanta maggior cura si deve coltivare una persona, quanto più essa è adorna di certe virtù più miti, come la moderazione, la temperanza e quella stessa giustizia di cui si è già tanto parlato. Invero, un animo forte e grande, in un uomo non perfetto e non saggio, è per lo più troppo fervido; quelle virtù, invece, sembrano convenir piuttosto al comune uomo dabbene. E questo valga per ciò che riguarda il carattere.

[47] De benivolentia autem, quam quisque habeat erga nos, primum illud est in officio, ut ei plurimum tribuamus, a quo plurimum diligamur, sed benivolentiam non adulescentulorum more ardore quodam amoris, sed stabilitate potius et constantia iudicemus. Sin erunt merita, ut non ineunda, sed referenda sit gratia, maior quaedam cura adhibenda est; nullum enim officium referenda gratia magis necessarium est.
47. Quanto alla benevolenza che altri mostrano verso di noi, il primo nostro dovere è che più si dia a chi più ci ama; ma questa benevolenza, non dobbiamo giudicarla, come fanno i giovinetti, da uno slancio d'affetto, ma piuttosto dalla sua stabilità e saldezza. Se poi qualcuno ha meriti tali verso di noi, che noi dobbiamo, non già acquistarci la sua gratitudine, ma testimoniargli la nostra, allora bisogna adoperare maggior zelo: nessun dovere è più imperioso che il ricambiare un beneficio ricevuto.

[48] Quodsi ea, quae utenda acceperis, maiore mensura, si modo possis, iubet reddere Hesiodus, quidnam beneficio provocati facere debemus? An imitari agros fertiles, qui multo plus efferunt, quam acceperunt? Etenim si in eos, quos speramus nobis profuturos, non dubitamus, officia conferre, quales in eos esse debemus, qui iam profuerunt? Nam cum duo genera liberalitatis sint, unum dandi beneficii, alterum reddendi, demus necne in nostra potestate est, non reddere viro bono non licet, modo id facere possit sine iniuria.
 48. E se Esiodo consiglia di rendere in maggior misura, solo che tu possa, quello che hai avuto in prestito, che cosa dobbiamo fare se qualcun altro ci previene nel benefizio? Non dobbìamo forse imitare i campi fertili, che rendono assai più di quel che ricevono? E se non esitiamo a prestare i nostri servigi a coloro dai quali ci ripromettiamo vantaggi futuri, quale riconoscenza non dobbiamo avere verso coloro che già ci hanno recato vantaggi? Ci sono due maniere di generosità: quella che consiste nel fare il beneficio e quella che consiste nel renderlo. Ora, se il farlo o il non farlo è in nostra facoltà, il non renderlo non è lecito a un uomo dabbene, purché possa fare ciò senza commettere un'ingiustizia.

[49] Acceptorum autem beneficiorum sunt dilectus habendi, nec dubium, quin maximo cuique plurimum debeatur. In quo tamen inprimis, quo quisque animo, studio, benivolentia fecerit, ponderandum est. Multi enim faciunt multa temeritate quadam sine iudicio, vel morbo in omnes vel repentino quodam quasi vento impetu animi incitati; quae beneficia aeque magna non sunt habenda atque ea, quae iudicio, considerate constanterque delata sunt. Sed in collocando beneficio et in referenda gratia, si cetera paria sunt, hoc maxime officii est, ut quisque opis indigeat, ita ei potissimum opitulari; quod contra fit a plerisque; a quo enim plurimum sperant, etiamsi ille iis non eget, tamen ei potissimum inserviunt.
 49. Quanto, poi, ai benefici ricevuti, bisogna far distinzione tra essi, e non c'è dubbio che, maggiore è il beneficio, maggiore è il debito di riconoscenza. A questo riguardo, tuttavia, bisogna soprattutto considerare con quale animo, con quale zelo, con quale benevolenza ciascuno l'ha fatto. In realtà, molte persone, per una certa leggerezza, fanno molti benefici, così, senza discernimento, perché spronate, o da una morbosa benevolenza verso tutti, o da un improvviso
impeto dell'animo, quasi come da una raffica di vento: questi benefici però non vanno tenuti nella stessa considerazione di quelli che furono prestati con giusto criterio, con meditata e consapevole fermezza. In ogni modo, tanto nel fare, quanto nel ricambiare il beneficio, è nostro categorico dovere, (se tutte le altre condizioni sono pari), porgere più specialmente aiuto a colui che ha più bisogno d'aiuto. I più, invece, fanno tutto il contrario: prestano più specialmente i loro servigi a colui dal quale più sperano, anche se egli non ne abbia bisogno.

[50] Optime autem societas hominum coniunctioque servabitur, si, ut quisque erit coniunctissimus, ita in eum benignitatis plurimum conferetur. Sed quae naturae principia sint communitatis et societatis humanae, repetendum videtur altius. Est enim primum quod cernitur in universi generis humani societate. Eius autem vinculum est ratio et oratio, quae docendo, discendo, communicando, disceptando, iudicando conciliat inter se homines coniungitque naturali quadam societate, neque ulla re longius absumus a natura ferarum, in quibus inesse fortitudinem saepe dicimus, ut in equis, in leonibus, iustitiam, aequitatem, bonitatem non dicimus; sunt enim rationis et orationis expertes.
 50. Il miglior modo per mantener salda la società e la fratellanza umana è di usare maggior lgenerosità verso chi ci è più strettamente congiunto. Ma conviene, io penso, risalire più indietro e mostrare quali siano i principi naturali che reggono l'umano consorzio. Il primo è quello che si scorge nella società dell'intero genere umano. La sua forza unificatrice è la ragione e la parola, che, insegnando e imparando, comunicando, discutendo, giudicando, affratella gli uomini tra loro e li congiunge in una specie di associazione naturale. Ed è questo il carattere che più ci allontana dalla natura delle bestie: noi diciamo spesso che nelle bestie c'è la forza - come nei cavalli e nei leoni -, ma non la giustizia, né l'equità, né la bontà; perché quelle son prive di ragione e di parola.

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,41 / 1,42 / 1,43 / 1,44 / 1,45

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [41] Ac de bellicis quidem officiis satis dictum est. Meminerimus autem etiam adversus infimos iustitiam esse servandam. Est autem infima condicio et fortuna servorum, quibus non male praecipiunt, qui ita iubent uti, ut mercennariis, operam exigendam, iusta praebenda. Cum autem duobus modis, id est aut vi aut fraude, fiat iniuria, fraus quasi vulpeculae, vis leonis videtur; utrumque homine alienissimum, sed fraus odio digna maiore. Totius autem iniustitiae nulla capitalior quam eorum, qui tum, cum maxime fallunt, id agunt, ut viri boni esse videantur. De iustitia satis dictum.
 41. Dobbiamo poi ricordare che anche verso le persone più umili si deve osservar la giustizia. E più umile d'ogni altra è la condizione e la sorte degli schiavi. Ottimo è il consiglio di coloro che raccomandano di valersi di essi come di lavoratori a mercede: si esiga buon lavoro, ma si dia la dovuta ricompensa. In due modi poi si può recare offesa: cioè con la violenza o con la frode; con la frode che è propria dell'astuta volpe e con la violenza che è propria del leone; indegnissime l'una e l'altra dell'uomo, ma la frode è assai più odiosa. Fra tutte le
specie d'ingiustizia, però, la più detestabile è quella di coloro che, quando più ingannano, più cercano di apparir galantuomini. Ma basti per la prima parte della giustizia.

[42] Deinceps, ut erat propositum, de beneficentia ac de liberalitate dicatur, qua quidem nihil est naturae hominis accommodatius, sed habet multas cautiones. Videndum est enim, primum ne obsit benignitas et iis ipsis, quibus benigne videbitur fieri, et ceteris, deinde ne maior benignitas sit, quam facultates, tum ut pro dignitate cuique tribuatur; id enim est iustitiae fundamentum, ad quam haec referenda sunt omnia. Nam et qui gratificantur cuipiam, quod obsit illi, cui prodesse velle videantur, non benefici neque liberales, sed perniciosi assentatores iudicandi sunt, et qui aliis nocent, ut in alios liberales sint, in eadem sunt iniustitia, ut si in suam rem aliena convertant.
 42. Parlerò, ora, come mi ero proposto, della beneficenza e della generosità, che è senza dubbio la virtù più consona alla natura umana, ma richiede non poche cautele. Bisogna, anzitutto, badare che la generosità non danneggi o la persona che si vuol beneficare, o gli altri; inoltre, che la generosità non sia superiore alle nostre forze; infine, che si doni a ciascuno secondo il suo merito: questo è il vero fondamento della giustizia, che deve caratterizzare sempre ogni precetto. In verità, quelli che fanno un favore che si risolve in danno per colui al quale essi, in apparenza, vogliono giovare, non meritano il nome di benefattori o di generosi bensì di malefici adulatori; e quelli che tolgono agli uni per esser generosi con gli altri, commettono la stessa ingiustizia di chi, si appropria dei beni altrui.

[43] Sunt autem multi et quidem cupidi splendoris et gloriae, qui eripiunt aliis, quod aliis largiantur, ique arbitrantur se beneficos in suos amicos visum iri, si locupletent eos quacumque ratione. Id autem tantum abest ab officio, ut nihil magis officio possit esse contrarium. Videndum est igitur, ut ea liberalitate utamur. quae prosit amicis, noceat nemini. Quare L. Sullae, C. Caesaris pecuniarum translatio a iustis dominis ad alienos non debet liberalis videri; nihil est enim liberale, quod non idem iustum.
43. Ci sono poi molti, e proprio fra quelli più avidi di onore e di gloria, i quali tolgono agli uni per elargire ad altri; e credono di passare per benefici verso i loro amici, se li arricchiscono in qualunque maniera. Ma ciò è tanto lontano dal dovere che anzi nulla è più contrario al dovere. Si cerchi dunque di usare quella generosità che giova agli amici e non nuoce ad alcuno. Perciò l'atto con cui Lucio Silla e Gaio Cesare tolsero ai legittimi proprietari i loro beni per trasferirli ad altri, non deve sembrar generoso: non c'è lgenerosità dove non è giustizia.

[44] Alter locus erat cautionis, ne benignitas maior esset quam facultates, quod qui benigniores volunt esse, quam res patitur, primum in eo peccant, quod iniuriosi sunt in proximos; quas enim copias his et suppeditari aequius est et relinqui eas transferunt ad alienos. Inest autem in tali liberalitate cupiditas plerumque rapiendi et auferendi per iniuriam, ut ad largiendum suppetant copiae. Videre etiam licet plerosque non tam natura liberales quam quadam gloria ductos, ut benefici videantur facere multa, quae proficisci ab ostentatione magis quam a voluntate videantur. Talis autem simulatio vanitati est coniunctior quam aut liberalitati aut honestati.
 44. La seconda cautela da usarsi è, come s'è detto, che la generosità non superi le nostre forze. Coloro che vogliono essere più generosi di quel che le loro sostanze consentono, peccano, in primo luogo, d'ingiustizia verso i loro più stretti congiunti, trasferendo ad estranei quelle ricchezze che sarebbe più giusto donare o lasciare ad essi; in secondo luogo, peccano di cupidigia, in quanto tale generosità implica per lo più la bramosia di rapire e di sottrarre illegalmente per aver modo e agio di fare elargizioni; in terzo luogo, peccano d'ambizione: infatti, la maggior parte di costoro, non tanto per naturale generosità, quanto per prepotente vanagloria, pur di apparire benefici, fanno molte cose che sembrano scaturire più da ostentazione che da sincera benevolenza. 'I'ale simulazione è più vicina all'impostura che alla generosità o all'onestà.

[45] Tertium est propositum, ut in beneficentia dilectus esset dignitatis; in quo et mores eius erunt spectandi, in quem beneficium conferetur, et animus erga nos et communitas ac societas vitae et ad nostras utilitates officia ante collata; quae ut concurrant omnia, optabile est; si minus, plures causae maioresque ponderis plus habebunt.
 45. Terza cautela da osservare è che, nella beneficenza, si faccia un'avveduta scelta dei meriti; bisogna, cioè, considerare bene il carattere della persona che si vuol beneficare, la disposizione dell'animo suo verso di noi, i rapporti sociali che tra noi intercedono e, infine, i servigi che essa ci ha resi: è desiderabile che tutte queste ragioni concorrano insieme; altrimenti le più numerose le più importanti avranno un peso maggiore

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,36 / 1,37 / 1,38 / 1,39 / 1,40

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [36] Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali populi Romani iure perscripta est. Ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit et indictum. [Popilius imperator tenebat provinciam, in cuius exercitu Catonis filius tiro militabat. Cum autem Popilio videretur unam dimittere legionem, Catonis quoque filium, qui in eadem legione militabat, dimisit. Sed cum amore pugnandi in exercitu remansisset, Cato ad Popilium scripsit, ut, si eum patitur in exercitu remanere, secundo eum obliget militiae sacramento, quia priore amisso iure cum hostibus pugnare non poterat.
 36. E appunto la regolare condotta della guerra è stata scrupolosamente definita dal diritto feziale del popolo romano. Da ciò si può dedurre che non è guerra giusta se non quella che si combatte o dopo aver chiesto riparazione dell'offesa, o dopo averla minacciata e dichiarata. [Era a capo d'una provincia il comandante Popilio, nel cui esercito militava come coscritto il figlio di Catone. Parve opportuno a Popilio congedare una legione, e quindi congedò anche il figlio di Catone che a quella legione apparteneva. Ma poiché, per desiderio di combattere, egli volle rimanere nell'esercito, Catone scrisse a Popilio che, se permetteva a suo figlio di restare, l'obbligasse a prestare un secondo giuramento militare perché, sciolto dal primo, non poteva legittimamente combattere col nemico]. Tanto rigorosa era l'osservanza del diritto anche nella condotta della guerra.

 [37] Adeo summa erat observatio in bello movendo.] M. quidem Catonis senis est epistula ad M. filium, in qua scribit se audisse eum missum factum esse a consule cum in Macedonia bello Persico miles esset. Monet igitur ut caveat, ne proelium ineat; negat enim ius esse, qui miles non sit cum hoste pugnare. Equidem etiam illud animadverto, quod, qui proprio nomine perduellis esset, is hostis vocaretur, lenitate verbi rei tristitiam mitigatam. Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus. Indicant duodecim tabulae: aut status dies cum hoste, itemque adversus hostem aeterna auctoritas. Quid ad hanc mansuetudinem addi potest, eum, quicum bellum geras, tam molli nomine appellare? Quamquam id nomen durius effecit iam vetustas; a peregrino enim recessit et proprie in eo, qui arma contra ferret, remansit.
 37. [C'è una lettera del vecchio Catone al figlio Marco, nella quale scrive d'aver saputo che egli era stato congedato dal console, mentre si trovava come soldato in Macedonia, nella guerra contro Perseo. L'ammonisce dunque di guardarsi bene dall'entrar in battaglia: " non è giusto - dice - che chi non è soldato, combatta col nemico".]
Voglio anche osservare che, chi doveva chiamarsi, con vocabolo proprio, perduellis ("nemico di guerra"), era invece chiamato hostis ("straniero"), temperando così con la dolcezza della parola la durezza della cosa. Difatti i nostri antenatii chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus ("forestiero"). Ne danno prova le dodici tavole: Aut status dies cum hoste ("o il giorno fissato, per un giudizio, con uno straniero"), e cosi ancora: Adversus hostem aeterna auctoritas ("Verso lo straniero l'azione giuridica non è soggetta a prescrizione"). Che cosa si può aggiungere a una così grande mitezza? Chiamare con un nome così benigno colui col quale si combatte! E' ben vero che ormai il lungo tempo trascorso ha reso questo vocabolo assai più duro: esso ha perduto il significato di forestiero per indicare propriamente colui che ti vien contro con l'armi in pugno.

 (il paragrafo 38 non è disponibile)

[39] Regalis sane et digna Aeacidarum genere sententia. Atque etiam si quid singuli temporibus adducti hosti promiserunt, est in eo ipso fides conservanda, ut primo Punico bello Regulus captus a Poenis, cum de captivis commutandis Romam missus esset iurassetque se rediturum, primum, ut venit, captivos reddendos in senatu non censuit, deinde, cum retineretur a propinquis et ab amicis, ad supplicium redire maluit quam fidem hosti datam fallere.
 39. Ancora. Se le singole persone, costrette dalle circostanze, fanno qualche promessa al nemico, devono scrupolosamente mantenerla. Così, per esempio, nella prima guerra punica, Regolo, caduto in mano dei Cartaginesi, fu mandato a Roma per trattare lo scambio dei prigionieri, sotto giuramento che sarebbe ritornato. Come giunse, per prima cosa, dichiarò in senato che non bisognava restituire i prigionieri; poi, benché i parenti e gli amici cercassero di trattenerlo, egli volle tornare al supplizio piuttosto che violare la parola data al nemico.

[40 [Secundo autem Punico bello post Cannensem pugnam quos decem Hannibal Romam misit astrictos iure iurando se redituros esse nisi de redimendis is, qui capti erant, impetrassent, eos omnes censores, quoad quisque eorum vixit, quod peierassent in aerariis reliquerunt, nec minus illum, qui iure iurando fraude culpam invenerat. Cum enim permissu Hannibalis exisset e castris, rediit paulo post, quod se oblitum nescio quid diceret; deinde egressus e castris iure iurando se solutum putabat, et erat verbis, re non erat. Semper autem in fide quid senseris, non quid dixeris, cogitandum est. Maximum autem exemplum est iustitiae in hostem a maioribus nostris constitutum, cum a Pyrrho perfuga senatui est pollicitus se venenum regi daturum et eum necaturum. Senatus et C. Fabricius eum Pyrrho dedit. Ita ne hostis quidem et potentis et bellum ultro inferentis interitum cum scelere approbavit.]
  40. [Nella seconda guerra punica, poi, dopo la battaglia di Canne, quei dieci giovani che Annibale mandò a Roma, vincolati dal giuramento che avrebbero fatto ritorno, se non avessero ottenuto il riscatto dei prigionieri, tutti, finché ciascuno di loro visse, furono lasciati dai censori, appunto perché spergiuri, fra i tributari; e non meno degli altri, colui che era caduto nella colpa di un giuramento non rispettato. Uscito, difatti, dal campo col permesso di Annibale, vi ritornò poco dopo, col pretesto d'aver dimenticato non so che cosa; poi, uscito di nuovo dal campo, si teneva prosciolto dal giuramento; ed era, a parole, ma non di fatto]. Quando si tratta di lealtà, bisogna guardar sempre, non alla lettera, ma allo spirito della parola. [Il più grande esempio, di lealtà verso il nemico fu dato dai nostri padri, quando un disertore di Pirro offrì al senato di uccidere il re col veleno. Il Senato e Gaio Fabrizio consegnarono il disertore a Pirro. Così, neppure di un nemico potente e aggressore si approvò la morte, se questa doveva comportare un delitto.] E dei doveri di guerra ho parlato abbastanza.

 
 
  

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,31 / 1,32 / 1,33 / 1,34 / 1,35

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [31] Sed incidunt saepe tempora, cum ea, quae maxime videntur digna esse iusto homine, eoque quem virum bonum dicimus, commutantur fiuntque contraria, ut reddere depositum, [etiamne furioso?] facere promissum quaeque pertinent ad veritatem et ad fidem; ea migrare interdum et non servare fit iustum. Referri enim decet ad ea, quae posui principio fundamenta iustitiae, primum ut ne cui noceatur, deinde ut communi utilitati serviatur. Ea cum tempore commutantur, commutatur officium et non semper est idem.
 31. Ma si danno spesso circostanze in cui, quelle azioni che sembrano più degne di un uomo giusto, di quello, cioè, che chiamiamo galantuomo, si mutano nel loro contrario, come, per esempio, il restituire un deposito (anche a un pazzo furioso?), o il mantenere una promessa; e così, il trasgredire e il non osservare le leggi della sincerità e della lealtà,
diventa talvolta cosa giusta. Conviene, infatti, riportarsi sempre a quelle norme fondamentali della giustizia che ho posto im principio: primo, non far male a nessuno; poi, servire alla utilità comune. Mutano col tempo le circostanze? Muta di pari passo il dovere e non è sempre lo stesso.

[32] Potest enim accidere promissum aliquod et conven tum, ut id effici sit inutile vel ei, cui promissum sit, vel ei, qui promiserit. Nam si, ut in fabulis est, Neptunus, quod Theseo promiserat, non fecisset, Theseus Hippolyto filio non esset orbatus. Ex tribus enim optatis, ut scribitur, hoc erat tertium, quod de Hippolyti interitu iratus optavit; quo impetrato in maximos luctus incidit. Nec promissa igitur servanda sunt ea, quae sint is, quibus promiseris inutilia, nec si plus tibi ea noceant, quam illi prosint, cui promiseris, contra officium est, maius anteponi minori, ut si constitueris, cuipiam te advocatum in rem praesentem esse venturum atque interim graviter aegrotare filius coeperit, non sit contra officium non facere, quod dixeris, magisque ille, cui promissum sit, ab officio discedat, si se destitutum queratur. Iam illis promissis standum non esse quis non videt, quae coactus quis metu, quae deceptus dolo promiserit? quae quidem pleraque iure praetorio liberantur, nonnulla legibus.
 32. Può darsi infatti che qualche promessa o qualche accordo sia di natura tale che il mandarlo ad effetto procuri danno, o a chi è stata fatta o a chi l'ha fatta. In verità, se Nettuno, come raccontano le favole, non avesse mantenuto la promessa fatta a Teseo, Teseo non avrebbe perduto il figlio Ippolito. Di quei tre desideri , come si narra, gliene restava da chiedere uno, il terzo, ed ecco che, accecato dall'ira, chiese la morte d'Ippolito: poichè il desiderio era stato esaudito, egli piombò nei più atroci dolori. Dunque non si debbono mantenere quelle promesse che sono dannose alle persone a cui son fatte; se quelle promesse recano maggior danno a chi le ha fatte che vantaggio a chi le ha ricevute, non è contrario al dovere anteporre il più al meno. Così, per esempio, se tu avevi promesso a qualcuno di recarti in tribunale per assisterlo in giudizio, e nel frattempo un tuo figliuolo fosse caduto gravemente malato, non sarebbe contrario al dovere non mantener la parola, anzi mancherebbe ben di più l'altro al suo dovere, se si lamentasse dell'abbandono. Inoltre, chi non s'accorge che non bisogna mantenere le promesse che si son fatte o costretti da paura o tratti in inganno? E appunto la maggior parte di questi obblighi è annullata dal diritto pretorio; alcuni di essi anche dalle leggi.

[33] Existunt etiam saepe iniuriae calumnia quadam et nimis callida sed malitiosa iuris interpretatione. Ex quo illud "summum ius summa iniuria" factum est iam tritum sermone proverbium. Quo in genere etiam in re publica multa peccantur, ut ille, qui, cum triginta dierum essent cum hoste indutiae factae, noctu populabatur agros, quod dierum essent pactae, non noctium indutiae. Ne noster quidem probandus, si verum est Q. Fabium Labeonem seu quem alium--nihil enim habeo praeter auditum --arbitrum Nolanis et Neapolitanis de finibus a senatu datum, cum ad locum venisset, cum utrisque separatim locutum, ne cupide quid agerent, ne appetenter, atque ut regredi quam progredi mallent. Id cum utrique fecissent, aliquantum agri in medio relictum est. Itaque illorum finis sic, ut ipsi dixerant, terminavit; in medio relictum quod erat, populo Romano adiudicavit. Decipere hoc quidem est, non iudicare. Quocirca in omni est re fugienda talis sollertia.
  33. Si commettono spesso ingiustizie anche per una certa tendenza al cavillo, cioè per una troppo sottile, ma in realtà maliziosa, interpretazione del diritto. Di qui il comune e ormai trito proverbio: 
' somma giustizia, somma ingiustizia'
A questo riguardo, si commettono molti errori anche nella vita pubblica; come, per esempio, quel tale che, conclusa col nemico una tregua di trenta giorni, andava di notte a saccheggiar le campagne, col pretesto che il patto parlava di giorni e non di notti. Non merita lode neppure, -se il fatto è vero -, quel nostro concittadino, sia egli Quinto Fabio Labeone o qualcun altro (io non ne so più che per sentito dire). Il senato l'aveva mandato ai Nolani e ai Napoletani, come arbitro per una questione di confini. Venuto egli sul luogo, parlò separatamente agli uni e agli altri, raccomandando che non trascendessero in atti di avidità e di prepotenza, anzi volessero piuttosto retrocedere che avanzare. Così fecero gli uni e gli altri, e un bel tratto di terreno rimase libero nel mezzo. Allora egli fissò i confini dei due popoli come essi avevano detto; e il terreno rimasto nel mezzo, l'assegnò al popolo romano. Questo si chiama ingannare, non giudicare. Perciò, in ogni circostanza, conviene evitare simili furberie.

[34] Sunt autem quaedam officia etiam adversus eos servanda, a quibus iniuriam acceperis. Est enim ulciscendi et puniendi modus; atque haud scio an satis sit eum, qui lacessierit iniuriae suae paenitere, ut et ipse ne quid tale posthac et ceteri sint ad iniuriam tardiores. Atque in re publica maxime conservanda sunt iura belli. Nam cum sint duo genera decertandi, unum per disceptationem, alterum per vim, cumque illud proprium sit hominis, hoc beluarum, confugiendum est ad posterius, si uti non licet superiore.
 34. Vi sono poi certi doveri che bisogna osservare anche nei confronti di coloro che ci hanno offeso. C'è una misura anche nella vendetta e nel castigo; anzi, io non so se non basti che il provocatore si penta della sua offesa, perché egli non ricada mai più in simile colpa, e gli altri siano meno pronti all'offesa. Ma soprattutto nei rapporti fra Stato e Stato si debbono osservare le leggi di guerra. In verità, ci sono due maniere di contendere: con la ragione e con la forza; e poiché la ragione è propria dell'uomo e la forza è propria delle bestie, bisogna ricorrere alla seconda solo quando non ci si può avvalere della prima. 

[35] Quare suscipienda quidem bella sunt ob eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur, parta autem victoria conservandi i, qui non crudeles in bello, non inmanes fuerunt, ut maiores nostri Tusculanos, Aequos, Volscos, Sabinos, Hernicos in civitatem etiam acceperunt, at Karthaginem et Numantiam funditus sustulerunt; nollem Corinthum, sed credo aliquid secutos, oportunitatem loci maxime, ne posset aliquando ad bellum faciendum locus ipse adhortari. Mea quidem sententia paci, quae nihil habitura sit insidiarum, semper est consulendum. In quo si mihi esset obtemperatum, si non optimam, at aliquam rem publicam, quae nunc nulla est, haberemus. Et cum iis, quos vi deviceris consulendum est, tum ii, qui armis positis ad imperatorum fidem confugient, quamvis murum aries percusserit, recipiendi. In quo tantopere apud nostros iustitia culta est, ut ii, qui civitates aut nationes devictas bello in fidem recepissent, earum patroni essent more maiorum.
 35. Si devono perciò intraprendere le guerre al solo scopo di vivere in sicura e tranquilla pace; ma, conseguita la vittoria, si devono risparmiare coloro che, durante la guerra, non furono né crudeli né spietati. Così, i nostri padri concessero perfino la cittadinanza ai Tusculani, agli Equi, ai Volsci, ai Sabini, agli Ernici; ma distrussero dalle fondamenta Cartagine e Numanzia; non avrei voluto la distruzione di Corinto; ma forse essi ebbero le loro buone ragioni, soprattutto la felice posizione del luogo, temendo che appunto il luogo fosse, o prima o poi, occasione e stimolo a nuove guerre. A mio parere, bisogna procurar sempre una pace che non nasconda insidie. E se in ciò mi si fosse dato ascolto, noi avremmo, se non un'ottimo Stato, almeno uno Stato, mentre ora non ne abbiamo nessuno. E se bisogna provvedere a quei popoli che sono stati pienamente sconfitti, tanto più si devono accogliere e proteggere quelli che, deposte le armi, ricorreranno alla lealtà dei capitani, anche se l'ariete abbia già percosso le loro mura. E a questo riguardo i Romani furono così rigidi osservanti della giustizia che quegli stessi capitani che avevano accolto sotto la loro protezione città o nazioni da loro sconfitte, ne divenivan poi patroni, secondo il costume dei nostri antenati.

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,27 / 1,28 / 1,29 / 1,30

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [27] Sed in omni iniustitia permultum interest, utrum perturbatione aliqua animi, quae plerumque brevis est et ad tempus, an consulto et cogitata fiat iniuria. Leviora enim sunt ea, quae repentino aliquo motu accidunt, quam ea, quae meditata et praeparata inferuntur. Ac de inferenda quidem iniuria satis dictum est.
 27. Ma in ogni sorta d'ingiustizia è molto importante considerare se l'offesa viene fatta a causa di un forte eccitamento dell'animo, che per lo più è breve e passeggero, o per meditato e deliberato proposito. Certo, sono più lievi le offese che prorompono da qualche improvvisa passione, che non quelle che si fanno con premeditazione e calcolo. E così del recare offesa ho detto abbastanza.

[28] Praetermittendae autem defensionis deserendique officii plures solent esse causae. Nam aut inimicitias aut laborem aut sumptus suscipere nolunt aut etiam neglegentia, pigritia, inertia aut suis studiis quibusdam occupationibusve sic impediuntur, ut eos, quos tutari debeant, desertos esse patiantur. Itaque videndum est, ne non satis sit id, quod apud Platonem est in philosophos dictum, quod in veri investigatione versentur quodque ea, quae plerique vehementer expetant, de quibus inter se digladiari soleant, contemnant et pro nihilo putent, propterea iustos esse. Nam alterum [iustitiae genus] assequuntur, ut inferenda ne cui noceant iniuria, in alterum incidunt; discendi enim studio impediti, quos tueri debent, deserunt. Itaque eos ne ad rem publicam quidem accessuros putant nisi coactos. Aequius autem erat id voluntate fieri; nam hoc ipsum ita iustum est, quod recte fit, si est voluntarium.
 28. Parecchie sono le ragioni che inducono gli uomini a trascurare l'altrui difesa, mancando così al proprio dovere: o non vogliono procurarsi inimicizie, fatiche, spese, oppure la negligenza, la pigrizia, l'inerzia, o anche certe loro particolari inclinazioni e occupazioni li trattengono in maniera che essi lasciano nell'abbandono quelli che invece essi avrebbero il dovere di proteggere. Temo pertanto che non soddisfi appieno ciò che Platone dice a proposito dei filosofi, cioè che essi sono giusti appunto perché, immersi nella ricerca del vero, tengono in poco e in nessun conto quelle cose che i più agognano con desiderio irrefrenabile, quelle cose per cui vogliono combattere tra loro persino con le armi. Infatti, se da un lato essi rispettano parzialmente la giustizia, in quanto non recano né danno né offesa ad alcuno, dall'altro essi la contrastano; infatti impediti dall'amore del sapere, abbandonano proprio quelli che essi hanno il dovere di proteggere. Proprio per tale motivo i seguaci di Platone ritengono che i filosofi non debbano neppure accostarsi alla vita pubblica, se non costretti. Molto meglio sarebbe, invece, che vi si accostassero spontaneamente; perché anche un'azione retta non è giusta se non è spontanea.

[29] Sunt etiam, qui aut studio rei familiaris tuendae aut odio quodam hominum suum se negotium agere dicant nec facere cuiquam videantur iniuriam. Qui altero genere iniustitiae vacant, in alterum incurrunt; deserunt enim vitae societatem, quia nihil conferunt in eam studii, nihil operae, nihil facultatum.
 29. Vi sono anche di quelli che, o per desiderio di ben custodire i propri beni, o per una certa avversione verso gli uomini, dichiarano di attendere soltanto ai loro affari, senza credere perciò di far torto ad alcuno. Costoro, se sono esenti da una specie d'ingiustizia, incorrono però nell'altra: abbandonano l'umana società, perché non dedicano ad essa né amore, né attività, né denaro.

[30] Quando igitur duobus generibus iniustitiae propositis adiunximus causas utriusque generis easque res ante constituimus, quibus iustitia contineretur, facile quod cuiusque temporis officium sit poterimus, nisi nosmet ipsos valde amabimus, iudicare. Est enim difficilis cura rerum alienarum. Quamquam Terentianus ille Chremes "humani nihil a se alienum putat"; sed tamen, quia magis ea percipimus atque sentimus, quae nobis ipsis aut prospera aut adversa eveniunt, quam illa, quae ceteris, quae quasi longo intervallo interiecto videmus, aliter de illis ac de nobis iudicamus. Quocirca bene praecipiunt, qui vetant quicquam agere, quod dubites aequum sit an iniquum. Aequitas lucet ipsa per se, dubitatio cogitationem significat iniuriae.
 30. Noi poco fa abbiamo chiarito le due forme dell'ingiustizia, aggiungendovi le cause dell'una e dell'altra; e prima ancora avevamo definito la vera essenza della giustizia; sicché ora potremo facilmente determinare quali siano i nostri particolari doveri nelle singole circostanze, se non ci farà velo l'eccessivo amore di noi stessi: perché è ben difficile il prendersi a cuore gl'interessi altrui. Ha un bel dire Cremete di Terenzio:
"Sono uomo: non c'è nulla di umano che non mi riguardi";
ma tuttavia, poiché ci toccano ben più i sensi e il cuore le fortune e le sfortune nostre che non quelle degli altri (queste noi le vediamo, per cosi dire, a gran distanza), diverso è il giudizio che facciamo di di quelli e di noi. Saggio perciò è il consiglio di chi ci ammonisce di non far cosa alcuna della cui giustizia o ingiustizia siamo in dubbio. La giustizia risplende di un suo proprio splendore; il solo dubbio implica sempre un sospetto d'ingiustizia.

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,21 / 1,22 / 1,23 / 1,24 / 1,25 / 1,26

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [21] Sunt autem privata nulla natura, sed aut vetere occupatione, ut qui quondam in vacua venerunt, aut victoria, ut qui bello potiti sunt, aut lege, pactione, condicione, sorte; ex quo fit, ut ager Arpinas Arpinatium dicatur, Tusculanus Tusculanorum; similisque est privatarum possessionum discriptio. Ex quo, quia suum cuiusque fit eorum, quae natura fuerant communia, quod cuique optigit, id quisque teneat; e quo si quis [quaevis] sibi appetet, violabit ius humanae societatis.
 21. I beni privati, peraltro, non esistono per natura, ma tali diventano, o per antica occupazione. come nel caso di coloro che un tempo vennero a stabilirsi in luoghi disabitati, o per diritto di conquista, come nel caso di coloro che s'impadronirono di un territorio per forza d'armi, o infine per legge, per convenzione, per contratto, per sorteggio. Per questo noi diciamo che il paese d'Arpino è degli Arpinati, e quel di Tuscolo, dei Tusculani; e allo stesso modo avviene la ripartizione dei beni privati. Ora, poiché diventa proprietà individuale di ciascuno una parte dei beni naturalmente comuni, quella parte che a ciascuno toccò in sorte, ciascuno la tenga per sua; e se qualcuno vi stenderà la mano per impadronirsene, violerà la legge della convivenza umana.

[22] Sed quoniam, ut praeclare scriptum est a Platone, non nobis solum nati sumus ortusque nostri partem patria vindicat, partem amici, atque, ut placet Stoicis, quae in terris gignantur, ad usum hominum omnia creari, homines autem hominum causa esse generatos, ut ipsi inter se aliis alii prodesse possent, in hoc naturam debemus ducem sequi, communes utilitates in medium adferre, mutatione officiorum, dando accipiendo, tum artibus, tum opera, tum facultatibus devincire hominum inter homines societatem.
 22. Ma poiché, come ha scritto splendidamente Platone, noi non siamo nati soltanto per noi, ma una parte della nostra esistenza la rivendica per sé la patria, e un'altra gli amici; e poiché ancora, come vogliono gli Stoici, tutto ciò che la terra produce è a vantaggio degli uomini, e gli uomini furono generati per il bene degli uomini, affinché possano giovarsi l'un l'altro a vicenda; per queste ragioni, dunque, noi dobbiamo seguire come guida la natura, mettendo in comune le cose di utilità comune, e stringendo sempre più i vincoli della società umana con lo scambio dei servigi, cioè col dare e col ricevere, con le arti, con l'attività, con i mezzi.

[23] Fundamentum autem est iustitiae fides, id est dictorum conventorumque constantia et veritas. Ex quo, quamquam hoc videbitur fortasse cuipiam durius, tamen audeamus imitari Stoicos, qui studiose exquirunt, unde verba sint ducta, credamusque, quia fiat, quod dictum est appellatam fidem. Sed iniustitiae genera duo sunt, unum eorum, qui inferunt, alterum eorum, qui ab is, quibus infertur, si possunt, non propulsant iniuriam. Nam qui iniuste impetum in quempiam facit aut ira aut aliqua perturbatione incitatus, is quasi manus afferre videtur socio; qui autem non defendit nec obsistit, si potest, iniuriae, tam est in vitio, quam si parentes aut amicos aut patriam deserat.
 23. Fondamento poi della giustizia è la lealtà, cioè la scrupolosa e sincera osservanza delle promesse e dei patti. Perciò - ma forse la cosa parrà a taluni alquanto forzata - oserei imitare gli Stoici, che cercano con tanto zelo l'etimologia delle parole, e vorrei credere che fides (fede, lealtà) sia stata chiamata così perché fit (si fa) quel che è stato promesso.Vi sono, poi, due tipi d'ingiustizia: l'uno è di coloro che fanno una offesa; l'altro, di quelli che, pur potendo, non la respingono da quanti la subiscono. Difatti, colui che, spinto dall'ira o da qualche altra passione, assale ingiustamente qualcuno, fa come chi metta le mani addosso a un suo compagno; ma chi, pur potendo, non respinge e non contrasta l'offesa non è meno colpevole di chi abbandonasse senza difesa i suoi genitori, i suoi amici, la sua patria.

[24] Atque illae quidem iniuriae, quae nocendi causa de industria inferuntur, saepe a metu proficiscuntur, cum is, qui nocere alteri cogitat, timet, ne, nisi id fecerit, ipse aliquo afficiatur incommodo. Maximam autem partem ad iniuriam faciendam aggrediuntur, ut adipiscantur ea, quae concupiverunt; in quo vitio latissime patet avaritia.
 24. Ed è ben vero che quelle ingiurie che si fanno per deliberato proposito di nuocere, hanno spesso origine dalla paura, quando, cioè, colui che medita di procurare un danno ad un altro, teme che, non facendo cosi, debba subir lui qualche danno. Ma la maggior parte degli uomini sono spinti a danneggiare gli altri per conquistare ciò che stimola in loro un intenso desiderio. E di questo la colpa massima è insita nell'avidità di denaro.

[25] Expetuntur autem divitiae cum ad usus vitae necessarios, tum ad perfruendas voluptates. In quibus autem maior est animus, in is pecuniae cupiditas spectat ad opes et ad gratificandi facultatem, ut nuper M. Crassus negabat ullam satis magnam pecuniam esse ei, qui in re publica princeps vellet esse, cuius fructibus exercitum alere non posset. Delectant etiam magnifici apparatus vitaeque cultus cum elegantia et copia, quibus rebus effectum est, ut infinita pecuniae cupiditas esset. Nec vero rei familiaris amplificatio nemini nocens vituperanda est, sed fugienda semper iniuria est.
 25. Inoltre, la ricchezza si desidera, o per soddisfare i bisogni della vita, o per goderne i piaceri. Ma coloro che hanno un animo assai grande e progetti molto elevati, bramano e cercano il denaro per acquistar potenza e prestigio; come, non molto tempo fa, Marco Crasso affermava che nessuna ricchezza è abbastanza grande per chi voglia primeggiare nello
Stato se, coi proventi di essa, egli non possa mantenere un esercito. Offrono godimento anche gli splendidi arredamenti, e un raffinato tenore di vita, ricco ed elegante. Per tutte queste ragioni il desiderio della ricchezza non conosce limiti. E in verità, non merita biasimo il cercare d'accrescere il patrimonio domestico, quando non si nuoce ad alcuno; basta non commetter mai nessuna ingiustizia.


[26] Maxime autem adducuntur plerique, ut eos iustitiae capiat oblivio, cum in imperiorum, honorum, gloriae cupiditatem inciderunt. Quod enim est apud Ennium:

"Nulla sancta societas / Nec fides regni est",
id latius patet. Nam quidquid eiusmodi est, in quo non possint plures excellere, in eo fit plerumque tanta contentio, ut difficillimum sit servare sanctam societatem. Declaravit id modo temeritas C. Caesaris, qui omnia iura divina et humana pervertit propter eum, quem sibi ipse opinionis errore finxerat principatum. Est autem in hoc genere molestum, quod in maximis animis splendidissimisque ingeniis plerumque existunt honoris, imperii, potentiae, gloriae cupiditates. Quo magis cavendum est, ne quid in eo genere peccetur.
 26. Ma i più perdono ogni senso e ogni ricordo della giustizia, quando cadono in preda al desiderio del comando, degli onori e della gloria. Certo, quella sentenza di Ennio:
" La brama del regno non conosce né santità di affetti né integrità di fede"
ha un suo ben più vasto campo di applicazione. In verità, ogni stato e ogni grado che non ammetta supremazia di varie persone, diventa generalmente il campo di contese così aspre che è assai difficile rispettare "la santità degli affetti". Chiara dimostrazione ne ha dato di recente la temeraria azione di Gaio Cesare che ha sovvertito tutte le leggi divine e umane per quel folle ideale di supremazia che egli s'era creato nella mente. E a questo riguardo è assai penoso vedere che sono gli animi più grandi e gl'ingegni più splendidi quelli in cui per lo più si accendono i desideri d'onori, di comando, di potenza e di gloria. Tanto maggiore cautela bisogna dunque usare per non commettere errori a questo riguardo.

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,16 / 1,17 / 1,18 / 1,19 / 1,20

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [16] Ut enim quisque maxime perspicit, quid in re quaque verissimum sit quique acutissime et celerrime potest et videre et explicare rationem, is prudentissimus et sapientissimus rite haberi solet. Quocirca huic quasi materia, quam tractet et in qua versetur, subiecta est veritas.
 16. Difatti, chi più si addentra con gli occhi della mente nella segreta verità delle cose; chi con più acume e con più prontezza può non solo penetrarne, ma anche spiegarne le intime ragioni, questi di solito è giustamente considerato il più prudente e il più saggio. Costui perciò ha in suo potere la verità, quasi come materia ch'egli debba trattare e di cui occuparsi.

[17] Reliquis autem tribus virtutibus necessitates propositae sunt ad eas res parandas tuendasque, quibus actio vitae continetur, ut et societas hominum coniunctioque servetur et animi excellentia magnitudoque cum in augendis opibus utilitatibusque et sibi et suis comparandis, tum multo magis in his ipsis despiciendis eluceat. Ordo autem et constantia et moderatio et ea, quae sunt his similia, versantur in eo genere ad quod est adhibenda actio quaedam, non solum mentis agitatio. Is enim rebus, quae tractantur in vita, modum quendam et ordinem adhibentes, honestatem et decus conservabimus.
 17. Le altre tre virtù hanno il compito di procurare e salvaguardare quelle cose da cui dipende la vita pratica, perché da un lato il legame sociale tra gli uomini si mantenga saldo, dall'altro l'eccellenza e la grandezza dell'animo risplenda in tutta la sua luce, non solo nell'accrescere potenza e vantaggi a sé e ai propri cari, ma anche, e molto più, nel disprezzar tali cose. Allo stesso modo, l'ordine, la coerenza, la moderazione e le altre simili virtù sono di natura tale che esigono non solo un'attività intellettuale, ma anche un'attività pratica. Se dunque alle operazioni della vita comune conferiamo una certa misura e un certo ordine, ecco, noi preserviamo ad un tempo l'onestà e la dignità.

[18] Ex quattuor autem locis, in quos honesti naturam vimque divisimus, primus ille, qui in veri cognitione consistit, maxime naturam attingit humanam. Omnes enim trahimur et ducimur ad cognitionis et scientiae cupiditatem, in qua excellere pulchrum putamus, labi autem, errare, nescire, decipi et malum et turpe ducimus. In hoc genere et naturali et honesto duo vitia vitanda sunt, unum, ne incognita pro cognitis habeamus hisque temere assentiamur, quod vitium effugere qui volet--omnes autem velle debent--adhibebit ad considerandas res et tempus et diligentiam.
 18. Delle quattro parti (o tipi), in cui abbiamo diviso l'intima essenza dell'onesto, quella prima, che si fonda sulla conoscenza del vero, tocca più da vicino l'essenza della natura umana. In verità, tutti siamo irresistibilmente trascinati dal desiderio di conoscere e di sapere; tutti stimiamo nobile e bello eccellere in questo campo, mentre giudichiamo triste e brutta cosa il cadere in fallo e lo smarrire la strada, il peccare d'ignoranza e il lasciarsi ingannare. In questa naturale e onesta inclinazione, dobbiamo peraltro evitare due difetti: il primo è che non si tenga per noto l'ignoto, dandogli ciecamente il nostro assenso; e chi vorrà fuggire questo difetto (e tutti dobbiamo volerlo), applicherà tempo e diligenza a ben considerare le cose.

[19] Alterum est vitium, quod quidam nimis magnum studium multamque operam in res obscuras atque difficiles conferunt easdemque non necessarias. Quibus vitiis declinatis quod in rebus honestis et cognitione dignis operae curaeque ponetur, id iure laudabitur, ut in astrologia C. Sulpicium audimus, in geometria Sex. Pompeium ipsi cognovimus, multos in dialecticis, plures in iure civili, quae omnes artes in veri investigatione versantur, cuius studio a rebus gerendis abduci contra officium est. Virtutis enim laus omnis in actione consistit, a qua tamen fit intermissio saepe multique dantur ad studia reditus; tum agitatio mentis, quae numquam adquiescit, potest nos in studiis cognitionis etiam sine opera nostra continere. Omnis autem cogitatio motusque animi aut in consiliis capiendis de rebus honestis et pertinentibus ad bene beateque vivendum aut in studiis scientiae cognitionisque versabitur. Ac de primo quidem officii fonte diximus.
 19. Il secondo difetto è che taluni pongono troppa attenzione e troppa fatica in cose oscure e astruse, e, per giunta, non necessarie. Eliminati questi due difetti, tutto lo sforzo e tutta la cura che si porrà in questioni oneste e proficue, avrà giusta e meritata lode: così fece, per esempio, nell'astronomia - come ho sentito raccontare - Gaio Sulpicio; nella matematica - come so per esperienza personale - Sesto Pompeo; e così fecero molti nella dialettica, molti altri ancora nel diritto civile: tutte discipline che hanno per oggetto la ricerca del vero. Ma se l'ardore di questa ricerca ci distoglie dai pubblici affari, noi manchiamo al nostro dovere: tutto il pregio della virtù consiste nell'azione. L'azione tuttavia ci consente spesso qualche svago, e molte occasioni ci si offrono per tornare ai nostri studi; inoltre, l'attività della mente, che non conosce riposo, vale di per sé a impegnarci nelle indagini speculative, anche senza nostro deliberato proposito. Ma ogni atto della mente, ogni moto dell'animo deve avere per oggetto, o le sagge e oneste decisioni che riguardano la moralità e felicità della vita, o gli studi scientifici e speculativi. E così ho parlato della prima fonte del dovere.

[20] De tribus autem reliquis latissime patet ea ratio, qua societas hominum inter ipsos et vitae quasi communitas continetur; cuius partes duae: iustitia, in qua virtutis splendor est maximus, ex qua viri boni nominantur, et huic coniuncta beneficentia, quam eandem vel benignitatem vel liberalitatem appellari licet. Sed iustitiae primum munus est, ut ne cui quis noceat, nisi lacessitus iniuria, deinde ut communibus pro communibus utatur, privatis ut suis.
 20. Fra le altre tre specie dell'onesto, la più ampia ed estesa è quella su cui si fonda la società degli uomini e, per così dire, la comunanza della vita. Due sono le sue parti: la giustizia, che ha in sé il più fulgido splendore della virtù e che conferisce agli uomini il nome di buoni; e, congiunta ad essa , la beneficenza, che può anche chiamarsi generosità o liberalità. Il primo compito, dunque, della giustizia è che nessuno rechi danno ad alcuno, se non provocato a torto; il secondo è che ciascuno adoperi le cose comuni come comuni, le private come private. 

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,11 / 1,12 / 1,13 / 1,14 / 1,15

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [11] Principio generi animantium omni est a natura tributum, ut se, vitam corpusque tueatur, declinet ea, quae nocitura videantur, omniaque, quae sint ad vivendum necessaria anquirat et paret, ut pastum, ut latibula, ut alia generis eiusdem. Commune item animantium omnium est coniunctionis appetitus procreandi causa et cura quaedam eorum, quae procreata sint. Sed inter hominem et beluam hoc maxime interest, quod haec tantum, quantum sensu movetur, ad id solum, quod adest quodque praesens est se accommodat, paulum admodum sentiens praeteritum aut futurum. Homo autem, quod rationis est particeps, per quam consequentia cernit, causas rerum videt earumque praegressus et quasi antecessiones non ignorat, similitudines comparat rebusque praesentibus adiungit atque adnectit futuras, facile totius vitae cursum videt ad eamque degendam praeparat res necessarias.
 11. Anzitutto, la natura ha dato ad ogni essere vivente l'istinto di conservare se stesso nella vita e nel corpo, schivando tutto ciò che può recargli danno e cercando ansiosamente tutto ciò che serve a sostentare la vita, come il cibo, il
ricovero, e altre cose dello stesso genere. Comune altresì a tutti gli esseri viventi è il desiderio dell'accoppiamento al fine di procreare, e una straordinaria cura della loro prole. Ma tra l'uomo e la bestia c'è soprattutto questa gran differenza, che la bestia, solo in quanto è stimolata dal senso conforma le sue attitudini a ciò che le è presente nello spazio e nel tempo, poco o nulla ricordando del passato e presentando del futuro; mentre l'uomo, in quanto è partecipe della ragione (in virtù di questa egli scorge le conseguenze, vede le cause efficienti, non ignora le occasionali, e, oso dire, gli antecedenti, confronta tra loro i casi simili, e alle cose presenti collega strettamente le future), l'uomo, dico, vede facilmente tutto il corso della vita e prepara in tempo le cose necessarie a ben condurla.

[12] Eademque natura vi rationis hominem conciliat homini et ad orationis et ad vitae societatem ingeneratque inprimis praecipuum quendam amorem in eos, qui procreati sunt impellitque, ut hominum coetus et celebrationes et esse et a se obiri velit ob easque causas studeat parare ea, quae suppeditent ad cultum et ad victum, nec sibi soli, sed coniugi, liberis, ceterisque quos caros habeat tuerique debeat, quae cura exsuscitat etiam animos et maiores ad rem gerendam facit.
 12. Oltre a ciò la natura, con la forza della ragione, concilia l'uomo all'uomo in una comunione di linguaggio e di vita; soprattutto genera in lui un singolare e meraviglioso amore per le proprie creature; spinge la sua volontà a creare e a godere associazioni e comunità umane, e sollecita le sue energie a procacciarsi tutto ciò che occorre al sostentamento e al miglioramento della vita, non solo per sé, ma anche per la moglie, per i figli e per tutti gli altri a cui porta affetto e a cui deve protezione. Ed è appunto questa sollecitudine che rinfranca lo spirito e lo fa più forte e più pronto all'azione.

[13] Inprimisque hominis est propria veri inquisitio atque investigatio. Itaque cum sumus necessariis negotiis curisque vacui, tum avemus aliquid videre, audire, addiscere cognitionemque rerum aut occultarum aut admirabilium ad beate vivendum necessariam ducimus. Ex quo intellegitur, quod verum, simplex sincerumque sit, id esse naturae hominis aptissimum. Huic veri videndi cupiditati adiuncta est appetitio quaedam principatus, ut nemini parere animus bene informatus a natura velit nisi praecipienti aut docenti aut utilitatis causa iuste et legitime imperanti; ex quo magnitudo animi existit humanarumque rerum contemptio.
 13. Ma soprattutto è propria esclusivamente dell'uomo l'accurata e laboriosa ricerca del vero. Ecco perché, quando siamo liberi dalle occupazioni e dalle ansie inevitabili della vita, allora ci prende il desiderio di vedere, di udire, d'imparare, e siamo convinti che il conoscere i segreti e le meraviglie della natura è la via necessaria per giungere alla felicità. E di qui ben si comprende come nulla sia più adatto alla natura umana di ciò che è intimamente vero e schiettamente sincero. A questo desiderio di contemplare la verità, va unita un certo desiderio d'indipendenza spirituale, per cui un animo ben formato per natura non è disposto ad obbedire ad alcuno, se non a chi lo educhi e lo ammaestri, oppure, nel suo interesse, con giusta e legittima autorità gli dia degli ordini. Di qui sorge la grandezza d'animo, di qui il disprezzo delle cose umane.

[14] Nec vero illa parva vis naturae est rationisque, quod unum hoc animal sentit, quid sit ordo, quid sit quod deceat, in factis dictisque qui modus. Itaque eorum ipsorum, quae aspectu sentiuntur, nullum aliud animal pulchritudinem, venustatem, convenientiam partium sentit; quam similitudinem natura ratioque ab oculis ad animum transferens multo etiam magis pulchritudinem, constantiam, ordinem in consiliis factisque conservandam putat cavetque ne quid indecore effeminateve faciat, tum in omnibus et opinionibus et factis ne quid libidinose aut faciat aut cogitet. Quibus ex rebus conflatur et efficitur id, quod quaerimus, honestum, quod etiamsi nobilitatum non sit, tamen honestum sit, quodque vere dicimus, etiamsi a nullo laudetur, natura esse laudabile.
 14. E non è davvero piccolo pregio della natura razionale il fatto che l'uomo, unico fra tutti gli esseri viventi, senta quale sia il valore dell'ordine, del lecito e della misura nelle azioni e nelle parole. Ecco perché, perfino in quelle cose che cadono sotto il senso della vista, nessun altro animale sente la bellezza, la grazia, l'armonia; solo la natura razionale dell'uomo, trasferendo per analogia questo sentimento dagli occhi allo spirito, pensa che a maggior ragione la bellezza, la costanza e l'ordine si debbano conservare nei pensieri e nelle azioni; e mentre essa si guarda dal commettere cosa contraria al decoro e alla dignità dell'uomo, bada anche, in ogni pensiero e in ogni azione, che non faccia e non pensi nulla obbedendo al capriccio. Ora, dall'intrinseca unione di questi quattro elementi è formato quello che andiamo cercando, cioè ciò che è onesto, il quale, anche se non gode di molta fama tra gli uomini, non cessa pertanto d'essere onesto; e anche se nessuno lo loda, noi diciamo a ragione che questo, per sua natura, è ben degno di lode.

[15] Formam quidem ipsam, Marce fili, et tamquam faciem honesti vides, "quae si oculis cerneretur, mirabiles amores ut ait Plato, excitaret sapientiae". Sed omne, quod est honestum, id quattuor partium oritur ex aliqua. Aut enim in perspicientia veri sollertiaque versatur aut in hominum societate tuenda tribuendoque suum cuique et rerum contractarum fide aut in animi excelsi atque invicti magnitudine ac robore aut in omnium, quae fiunt quaeque dicuntur ordine et modo, in quo inest modestia et temperantia. Quae quattuor quamquam inter se colligata atque implicata sunt, tamen ex singulis certa officiorum genera nascuntur, velut ex ea parte, quae prima discripta est, in qua sapientiam et prudentiam ponimus, inest indagatio atque inventio veri, eiusque virtutis hoc munus est proprium.
 15. Eccoti, o Marco, figliuol mio, la forma ideale e, direi quasi, la sembianza pura dell'onesto, " quella che, se la si scorgesse coi nostri occhi, accenderebbe in noi", come dice Platone, " un meraviglioso amore per la sapienza". Ma ogni atto onesto scaturisce da una di queste quattro fonti: o consiste nell'accurata e attenta indagine del vero; o nella conservazione della società umana, dando a ciascuno il suo e rispettando lealmente i patti; o nella grandezza e saldezza d'uno spirito sublime e invitto; o, infine, nell'ordine e nella misura di tutti i nostri atti e di tutti i nostri detti; e in ciò consiste appunto la moderazione e la temperanza. E benché queste quattro virtù siano in stretta connessione tra loro, tuttavia da ciascuna di esse nasce un particolare tipo di dovere, come, per esempio, quella virtù che ho distinta per prima e in cui poniamo la sapienza e la saggezza, la quale comporta, come suo proprio e speciale compito, la ricerca e la scoperta della verità. 

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,6 / 1,7 / 1,8 / 1,9 / 1,10

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri) 

 [6] Quae quamquam ita sint in promptu, ut res disputatione non egeat, tamen sunt a nobis alio loco disputata. Hae disciplinae igitur si sibi consentaneae velint esse, de officio nihil queant dicere, neque ulla officii praecepta firma, stabilia, coniuncta naturae tradi possunt, nisi aut ab iis, qui solam, aut ab iis, qui maxime honestatem propter se dicant expetendam. Ita propria est ea praeceptio Stoicorum, Academicorum, Peripateticorum, quoniam Aristonis, Pyrrhonis, Erilli iam pridem explosa sententia est, qui tamen haberent ius suum disputandi de officio, si rerum aliquem dilectum reliquissent, ut ad officii inventionem aditus esset. Sequemur igitur hoc quidem tempore et hac in quaestione potissimum Stoicos, non ut interpretes, sed, ut solemus, e fontibus eorum iudicio arbitrioque nostro quantum quoque modo videbitur, hauriemus.
 6. Queste dottrine, dunque, se volessero essere coerenti con se stesse, non potrebbero dire nulla intorno al dovere: nessun precetto morale, saldo, stabile, conforme a natura, può esser impartito se non da chi afferma che o soltanto l'onestà o soprattutto l'onestà deve essere perseguita per se stessa. Ora, un tale insegnamento è proprio degli Stoici, degli Accademici e dei Peripatetici, dal momento che la dottrina di Aristone, di Pirrone e di Erillo è ormai rifiutata da tempo. E tuttavia anche costoro avrebbero il loro buon diritto di discutere del dovere, se avessero lasciato una qualche scelta tra le cose umane, sì che fosse aperta la via alla scoperta del concetto di dovere. In questa occasione e in questa questione, dunque, io seguo principalmente gli Stoici, non già come semplice traduttore, ma, secondo il mio costume, attingendo da essi, come fonte, con piena e intera libertà di giudizio, quanto e come mi parrà opportuno.

[7] Placet igitur, quoniam omnis disputatio de officio futura est, ante definire, quid sit officium, quod a Panaetio praetermissum esse miror. Omnis enim, quae a ratione suscipitur de aliqua re institutio, debet a definitione proficisci, ut intellegatur, quid sit id de quo disputetur. . . . Omnis de officio duplex est quaestio. Unum genus est, quod pertinet ad finem bonorum, alterum, quod positum est in praeceptis, quibus in omnes partes usus vitae conformari possit. Superioris generis huiusmodi sunt exempla, omniane officia perfecta sint, num quod officium aliud alio maius sit et quae sunt generis eiusdem. Quorum autem officiorum praecepta traduntur, ea quamquam pertinent ad finem bonorum, tamen minus id apparet, quia magis ad institutionem vitae communis spectare videntur; de quibus est nobis his libris explicandum.
 7. Ora, poiché tutto il mio ragionamento si svolgerà intorno al dovere, mi piace definire innanzi tutto l'essenza del dovere; e mi meraviglio che Panezio abbia trascurato questo punto. Ogni trattazione, infatti, che la ragione intraprende metodicamente su qualche argomento, dovrebbe partire dalla definizione, perché ben si comprenda qual è l'oggetto di cui si discute. Tutta la questione riguardante il dovere consta di due parti: l'una, (teorica), che riguarda il concetto del sommo bene; l'altra, (pratica), che consiste nei precetti che devono regolare la condotta della vita in tutti i suoi aspetti. Alla prima appartengono questioni di tal genere: i doveri sono tutti assoluti? Ci sono doveri più importanti di altri doveri?; e così via, con l'aiuto di esempi. Quanto poi a quei doveri, per i quali si possono dare norme pratiche, riguardano bensì anch'essi il sommo bene, ma tuttavia questo loro carattere è meno evidente, perché, a quanto pare, essi mirano piuttosto a regolare la vita comune di tutti i giorni; ebbene, sono appunto questi i doveri che io spiegherò in questi libri.

[8] Atque etiam alia divisio est officii. Nam et medium quoddam officium dicitur et perfectum. Perfectum officium rectum, opinor, vocemus, quoniam Graeci katorthoma, hoc autem commune officium kathekon vocant. Atque ea sic definiunt, ut rectum quod sit, id officium perfectum esse definiant; medium autem officium id esse dicunt, quod cur factum sit, ratio probabilis reddi possit.
 8. Ma c'è anche un'altra suddivisione del dovere. C'è infatti il così detto dovere intermedio o relativo e c'è quello che si chiama assoluto. Il dovere assoluto possiamo anche chiamarlo, se non erro, perfetto, poiché i Greci lo chiamano kato/rqwma, mentre chiamano kaqh/kon il dovere relativo. E dei due doveri essi danno questa definizione: definiscono dovere assoluto l'assoluta rettitudine, mentre chiamano dovere relativo quello del cui adempimento si può fornire una ragione plausibile .

[9] Triplex igitur est, ut Panaetio videtur, consilii capiendi deliberatio. Nam aut honestumne factu sit an turpe dubitant id, quod in deliberationem cadit; in quo considerando saepe animi in contrarias sententias distrahuntur. Tum autem aut anquirunt aut consultant ad vitae commoditatem iucunditatemque, ad facultates rerum atque copias, ad opes, ad potentiam, quibus et se possint iuvare et suos, conducat id necne, de quo deliberant; quae deliberatio omnis in rationem utilitatis cadit. Tertium dubitandi genus est, cum pugnare videtur cum honesto id, quod videtur esse utile. Cum enim utilitas ad se rapere, honestas contra revocare ad se videtur, fit ut distrahatur in deliberando animus afferatque ancipitem curam cogitandi.
 9. Tre punti si devono quindi considerare, secondo Panezio, nel prendere una decisione. Prima di tutto ci si pone il quesito se sia onesto o disonesto da mettere in pratica, quello che è oggetto della nostra decisione; e appunto in questa indagine spesso gli animi si dividono in opposti pareri. Poi si studia o si riflette attentamente, se ciò che si decide giovi, o no, alla comodità e alla piacevolezza della vita, agli averi, agli agi, al prestigio, al potere, tutte cose utili a noi e ai nostri familiari; e questa valutazione rientra tutta nell'ambito dell'utilità. La terza specie di dubbio si ha quando ciò che sembra utile entra in conflitto con l'onesto: quando pare, infatti, che per un verso l'utilità ci trascini a sé e l'onestà per contro ci richiami a sé, allora l'animo nel prendere una decisione si divide e produce una profonda incertezza nel pensiero. 

[10] Hac divisione, cum praeterire aliquid maximum vitium in dividendo sit, duo praetermissa sunt. Nec enim solum, utrum honestum an turpe sit, deliberari solet, sed etiam duobus propositis honestis utrum honestius, itemque duobus propositis utilibus utrum utilius. Ita quam ille triplicem putavit esse rationem in quinque partes distribui debere reperitur. Primum igitur est de honesto, sed dupliciter, tum pari ratione de utili, post de comparatione eorum disserendum.
 10. Ora, questa divisione, benché sia gravissimo difetto trascurare qualcosa nel valutare un argomento, trascura ben due elementi: giacché non si è soliti, difatti, decidere soltanto se un obiettivo sia onesto o disonesto, ma, posti dinanzi a due obiettivi onesti, decidere anche quale dei due sia più onesto; e allo stesso modo, postici innanzi due obiettivi utili, decidere quale dei due sia più utile. Si trova così che quella materia, che Panezio ritenne di natura triplice, deve invece distribuirsi in cinque parti. Prima di tutto, dunque, si dovrà ragionare dell'onestà, ma sotto due aspetti; poi, con lo stesso metodo, dell'utile; infine si dovranno confrontare tra loro questi due principi.

Cicerone, De officiis (I doveri) 1,1 / 1,2 / 1,3 / 1,4 / 1,5

TESTO DI
Cicerone, De officiis (I doveri)

[1] Quamquam te, Marce fili, annum iam audientem Cratippum idque Athenis abundare oportet praeceptis institutisque philosophiae propter summam et doctoris auctoritatem et urbis, quorum alter te scientia augere potest, altera exemplis, tamen, ut ipse ad meam utilitatem semper cum Graecis Latina coniunxi neque id in philosophia solum, sed etiam in dicendi exercitatione feci, idem tibi censeo faciendum, ut par sis in utriusque orationis facultate. Quam quidem ad rem nos, ut videmur, magnum attulimus adiumentum hominibus nostris, ut non modo Graecarum litterarum rudes, sed etiam docti aliquantum se arbitrentur adeptos et ad dicendum et ad iudicandum.
1. Marco, figlio mio, so bene che tu, ascoltando già da un anno le lezioni di Cratippo, e per di più in Atene, sei in possesso di un cospicuo bagaglio di precetti e dottrine filosofiche, grazie alla straordinaria autorità del maestro e della città, (l'uno può arricchirti di scienza, l'altra di esempi); tuttavia, come io per mia utilità ho sempre abbinato le lettere latine con le greche, e ciò non solo nel campo della filosofia, ma anche nella pratica dell'eloquenza, penso che tu debba fare altrettanto, per usare con uguale disinvoltura l'uno e l'altro idioma. In questo campo io, se non m'inganno, ho dato un grande aiuto ai miei connazionali, al punto che non solo coloro che ignorano di lettere greche, ma anche i dotti ritengono d'aver raggiunto risultati non di poco conto nell'arte del ben parlare e del ben pensare. 

[2] Quam ob rem disces tu quidem a principe huius aetatis philosophorum et disces quam diu voles; tam diu autem velle debebis, quoad te quantum proficias non paenitebit. Sed tamen nostra legens non multum a Peripateticis dissidentia, quoniam utrique Socratici et Platonici volumus esse, de rebus ipsis utere tuo iudicio--nihil enim impedio--orationem autem Latinam efficies profecto legendis nostris pleniorem. Nec vero hoc arroganter dictum existimari velim. Nam philosophandi scientiam concedens multis, quod est oratoris proprium, apte, distincte, ornate dicere, quoniam in eo studio aetatem consumpsi, si id mihi assumo, videor id meo iure quodam modo vindicare.
 2. Tu riuscirai ad apprendere dal principe dei filosofi contemporanei, e apprenderai finché lo vorrai; dovrai volerlo fintanto che non sarai soddisfatto del tuo profitto; ma tuttavia, leggendo i miei scritti, che non discordano molto dai Peripatetici, giacché gli uni e gli altri vogliamo essere Socratici e Platonici, tu, quanto alle dottrine, userai liberamente il tuo giudizio personale (io non voglio impedirtelo affatto); ma leggendo le cose mie renderai certamente più sicuro e più ricco il tuo stile latino. E non vorrei che questa mia affermazione fosse ritenuta presuntuosa. Difatti, pur ammettendo che molti hanno la capacità di filosofare, se io rivendico a me ciò che è proprio dell'oratore, cioè il parlare con proprietà, con chiarezza, con eleganza, credo di poterlo fare in certo qual modo con pieno diritto, giacché a questo lavoro io ho dedicato tutta la mia vita.

 [3] Quam ob rem magnopere te hortor, mi Cicero, ut non solum orationes meas, sed hos etiam de philosophia libros, qui iam illis fere se aequarunt, studiose legas,--vis enim maior in illis dicendi,--sed hoc quoque colendum est aequabile et temperatum orationis genus. Et id quidem nemini video Graecorum adhuc contigisse, ut idem utroque in genere elaboraret sequereturque et illud forense dicendi et hoc quietum disputandi genus, nisi forte Demetrius Phalereus in hoc numero haberi potest, disputator subtilis, orator parum vehemens, dulcis tamen, ut Theophrasti discipulum possis agnoscere. Nos autem quantum in utroque profecerimus, aliorum sit iudicium, utrumque certe secuti sumus.
 3. Perciò ti esorto vivamente, o mio Cicerone, a leggere con amore non solo le mie orazioni, ma anche questi miei libri filosofici, che ormai le uguagliano per mole e per numero: certo in quelle vi è un maggior vigore di stile, ma è ben degno d'esser coltivato questo mio stile di scrittura piana e pacata. Francamente, a quanto mi è dato di vedere, nessuno dei Greci ha avuto finora la fortuna di riuscire allo stesso modo nell'uno e nell'altro genere, coltivando a un tempo quel genere che è proprio del foro, e questo, più tranquillo, che è proprio del ragionare, anche se non si può includere nel numero di costoro Demetrio di Falereo, ragionatore sottile, oratore poco vigoroso, ma tuttavia piacevole, per cui si può riconoscere in lui un discepolo di Teofrasto. Quanto a me, quale sia stato il mio contributo nell'uno e nell'altro genere, non sta a me giudicare; in realtà io ho praticato entrambi i generi.

[4] Equidem et Platonem existimo si genus forense dicendi tractare voluisset, gravissime et copiosissime potuisse dicere et Demosthenem si illa, quae a Platone didicerat, tenuisset et pronuntiare voluisset, ornate splendideque facere potuisse; eodemque modo de Aristotele et Isocrate iudico, quorum uterque suo studio delectatus contempsit alterum. Sed cum statuissem scribere ad te aliquid hoc tempore, multa posthac, ab eo ordiri maxime volui, quod et aetati tuae esset aptissimum et auctoritati meae. Nam cum multa sint in philosophia et gravia et utilia accurate copioseque a philosophis disputata, latissime patere videntur ea quae de officiis tradita ab illis et praecepta sunt. Nulla enim vitae pars neque publicis neque privatis neque forensibus neque domesticis in rebus, neque si tecum agas quid, neque si cum altero contrahas, vacare officio potest in eoque et colendo sita vitae est honestas omnis et neglegendo turpitudo.
4. Personalmente sono convinto che Platone, se avesse voluto trattare il genere forense, sarebbe diventato un potentissimo ed eloquentissimo oratore, e che Demostene, se avesse assimilato del tutto le dottrine apprese da Platone, e avesse voluto esporle, l'avrebbe fatto con molta eleganza e splendore; e lo stesso giudizio esprimo su Aristotele e Isocrate; purtroppo sia l'uno che l'altro, innamorato ciascuno della propria disciplina, tenne in poco conto quella dell'altro. 
Ora, avendo io stabilito di scrivere per te qualche cosa in questo periodo e molte altre in avvenire, ho voluto prendere le mosse proprio da quell'argomento che più si addice e all'età tua e alla mia autorità. Difatti, tra le molte questioni filosofiche, importanti ed utili, trattate con grande attenzione e ampiezza dai filosofi, a parer mio quelli che hanno la più larga e vasta applicazione sono gli insegnamenti e i precetti tramandati da essi intorno ai doveri. In verità, non c'è momento della vita - sia negli affari pubblici che nei privati, sia nei forensi che nei domestici, sia che tu tratti qualcosa per tuo conto sia che tu abbia che fare con altri - non c'è momento che si sottragga al dovere anzi, così come nell'adempimento del dovere consiste tutta l'onestà della vita, nell'inosservanza di esso risiede tutta la disonestà. E questo problema è comune a tutti i filosofi: infatti chi è che potrebbe definirsi filosofo, senza dare alcun precetto d'ordine morale?


 [5] Atque haec quidem quaestio communis est omnium philosophorum. Quis est enim, qui nullis officii praeceptis tradendis philosophum se audeat dicere? Sed sunt non nullae disciplinae, quae propositis bonorum et malorum finibus officium omne pervertant. Nam qui summum bonum sic instituit, ut nihil habeat cum virtute coniunctum, idque suis commodis, non honestate metitur, hic, si sibi ipse consentiat et non interdum naturae bonitate vincatur, neque amicitiam colere possit nec iustitiam nec liberalitatem; fortis vero dolorem summum malum iudicans aut temperans voluptatem summum bonum statuens esse certe nullo modo potest.
 5. Ma ci sono alcune dottrine che, con la loro definizione del sommo bene e del sommo male, sovvertono ogni concetto del dovere. Chi, difatti, definisce il sommo bene come del tutto disgiunto dalla virtù, e lo misura non col criterio dell'onestà, ma con quello del proprio vantaggio, costui, se vuol esser coerente con se stesso, e non è trascinato talora dalla bontà della propria indole, non potrà praticare né l'amicizia, né la giustizia, né la generosità: certo non può essere in alcun modo forte, giudicando il dolore il male peggiore, né temperante, ponendo come sommo bene il piacere. E benché questi principi siano così evidenti, che non hanno bisogno di alcuna dimostrazione, io li ho ampiamente discussi altrove.

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